Rubriche di
Patrizia Fontana Roca

COLLABORAZIONI

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COME IN UNO SPECCHIO


“Volti santi” ai piedi della Croce

DARE UN VOLTO

La IV domenica di Quaresima ambrosiana ascolta e medita i seguenti testi biblici: Es 34, 20-35; 2 Cor 3, 7-13.17-18; e Gv 9, 1-41. È detta Domenica del Cieco nato, con simbologia battesimale, così come è tutta la Quaresima di rito ambrosiano.

In questa domenica, leggendo le letture, il pensiero si ferma sui volti dei personaggio raccontati dalle letture.
- ll volto di Mosé, avvolto nel velo
- ll volto del “testimone”, che riflette come in uno specchio
- ll volto di Gesù, che è luce del mondo
- ll volto del cieco nato, che gioisce e testimonia l’incontro con Gesù
- ll volto dei genitori, che è impaurito dalle pressioni sociali e religiose
- ll volto dei farisei, che è preoccupato dalle parole e dalle opere del Nazareno
- ll volto dei discepoli, che è interrogato dal problema del male e del peccato.

Mi domando: ma come è il mio volto?

Molti di noi hanno la capacità di mostrare con il volto lo stato del loro animo. Non sempre però il sorriso sul volto è sorriso del cuore, e viceversa!

Ci sono alcuni uomini e donne nella storia della Chiesa, che sono riusciti a custodire nel volto la gloria del Signore che li abitava!
Anche se il loro corpo era Golgota e Croce, dove il Cristo aveva trovato la sua dolce dimora!

Ricordando!

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MARIANTONIA SAMA'

Mariantonia Samà nacque il 2 marzo 1875 in Sant’Andrea Ionio, piccolo paese in provincia di Catanzaro e visse in condizioni di estrema povertà, in una cameretta simile ad una cella.
All’età di dodici anni, seguendo la madre in campagna, fu invasa dallo spirito “maligno”, dopo aver bevuto dell’acqua corrente tra i sassi.
Viste le inutili benedizioni impartitele anche dai frati del convento del vicino comune di Badolato, si ricorse all’esorcismo presso la Certosa di Serra San Bruno (ora in provincia di Vibo Valentia).
Dopo alcuni tentativi del Padre certosino, Mariantonia fu liberata dal “maligno”, ma si narra che lo stesso pronunciò la frase: “La lascio viva, ma storpia”.
Trascorsi un paio di anni, Mariantonia – non si sa se per “vendetta” di Satana… – rimase immobile a letto, fino alla morte e, quindi, per oltre sessant’anni, in posizione supina, con le ginocchia sempre alzate e contratte.
Iniziò per lei un lungo e doloroso calvario che sopportò con la forza dell’amore, con lo sguardo sempre rivolto al Crocifisso appeso alla parete di fronte al letto.
Guidata dallo Spirito Santo nella comprensione del “mistero della Croce”, considerò, quindi, un dono la sua malattia, accettando con serena rassegnazione la definitiva immobilità, che offriva a Dio per la conversione dei peccatori, in riparazione delle loro offese e per ottenere risposta alle richieste di coloro che cercavano conforto presso di lei.
Il suo piccolo letto divenne un altare di offerta e di partecipazione alla Passione ed alla Croce di Gesù: “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Paolo – Gal.2,20).
Fu sempre assistita da volontarie, sotto il costante controllo delle Suore Riparatrici del Sacro Cuore, che curarono anche la sua preparazione spirituale, trasmettendole una sentita devozione verso lo Spirito Santo ed il Sacro Cuore di Gesù, al quale Mariantonia si rivolse per tutta la vita con spirito di “riparazione eucaristica”.
Le Suore decisero di aggregarla alla loro Congregazione e, dopo i voti, Mariantonia divenne per tutti la “Monachella di San Bruno”.
Le virtù che hanno caratterizzato la sua vita sono numerose:
la semplicità d’animo; l’umiltà; la modestia; la serenità, che traspariva dal suo volto anche nei momenti di maggior sofferenza; la disponibilità; la generosità ed un’immensa fiducia nella Divina Provvidenza.
Lei, che poteva vivere solo di offerte, divideva con gli altri bisognosi del paese tutto quanto riceveva, sicura che il giorno successivo vi avrebbe comunque provveduto il buon Dio e dimostrando, così, la verità delle parole di San Paolo: “Si è più felici nel dare che nel ricevere” (At.20,35).
La virtù esercitata da Mariantonia in maniera estremamente eroica è stata senz’altro la pazienza che le impedì non solo di ribellarsi alla sua infermità, ma anche di lamentarsi quando i dolori lancinanti, specie durante la Quaresima, da lei sempre sofferta in condivisione con Cristo, martoriavano il suo esile corpo.
Viceversa, il suo spirito era forte, perché lo alimentava quotidianamente con la preghiera e con l’ostia che le portava puntualmente il suo confessore e dalla quale attingeva sostegno per sopportare la sofferenza, per lottare contro il male e per vivere in perenne amicizia con il Signore.
La sua cameretta, con le pareti tappezzate da molte immagini sacre, sembrava un piccolo “tempio”, soprattutto quando, per ben tre volte al giorno, vi era la recita comunitaria del Santo Rosario, essendo Mariantonia “calamita” di preghiere.
Già durante la vita, la sua fama di santità si era diffusa tra gli abitanti del paese, molti dei quali avevano sperimentato i suoi doni della profezia e della guarigione.
Ma oltre a questi, tanti altri sono stati i carismi concessi a lei dallo Spirito Santo: il dono dell’estasi; dell’introspezione; della bilocazione; dell’apparizione; del profumo, sempre presente nella sua camera; della condivisione delle sofferenze di Gesù durante la Quaresima e la Passione e, infine, il dono dell’immunità da piaghe da decubito, anche questo scientificamente inspiegabile, benché fenomeno oggettivo e visibile a tutti.
Mariantonia esalò l’ultimo respiro la mattina del 27 maggio 1953.
Le esequie si svolsero nel pomeriggio dello stesso giorno e l’Arciprete, don Andrea Samà, in considerazione della fama di santità, ordinò che la salma, deposta nella bara aperta, per consentire l’ultimo saluto dei compaesani, venisse accompagnata in processione per alcune vie del paese, prima di raggiungere il Cimitero.
Qui rimase esposta ai fedeli fino al mattino del 29 maggio e molti attestano di aver visto, nel baciarla, che le sue palpebre si alzavano ed abbassavano e di aver sentito un delizioso profumo di rose, non proveniente da fiori…
Attualmente, i sacri resti della Serva di Dio Mariantonia Samà, assieme alla sua inseparabile corona del Rosario, si trovano nella Chiesa Parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo, dove sono stati traslati il 3 agosto 2003.

 

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DON ANTONIO BELLO
(DON TONINO)

Alessano, Lecce, 18 marzo 1935 – Molfetta, 20 aprile 1993

E’ impossibile descrivere in poche righe ciò che Sua Eccellenza Mons. Antonio Bello, per tutti Don Tonino, ha rappresentato per la Chiesa e per tutti coloro che vivono ai margini di una società troppo spesso disattenta ai reali e penosi problemi della “gente comune”.
Nato ad Alessano in provincia di Lecce nel 1935, fu ordinato sacerdote nel 1957 a soli 22 anni.
Nel 1982 divenne vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi.
Nonostante l’alto incarico ecclesiale, Don Tonino era affabile e disponibile con chiunque bussava alla sua porta per chiedere una parola di conforto, un aiuto materiale, un momento di ristoro per l’anima. Ogni singola situazione veniva presa a cuore, affrontata con determinazione.
A chi gli chiedeva che cosa lo affliggesse di più, Don Tonino rispondeva: “Mi fa soffrire molto l’impossibilità di giungere a dare una mano a tutti. Ho un’agenda sovraccarica di persone che chiedono una visita, un sostegno, un appuntamento, del denaro, una soluzione ai loro problemi… Si vorrebbe avere occhi e mani per ognuno, ma non si riesce, e questo è il rammarico più grande”.
Una frase che risuonava spesso sulle labbra di Don Tonino era: “Coraggio, non temere”.
In uno suo scritto intitolato “Le mie notti insonni”, Don Tonino elenca una serie piuttosto lunga di paure che contaminano l’uomo moderno, minando anche il suo rapporto con Dio.
Paure frutto spesso di un progresso che, dopo gli entusiasmi iniziali, si ritorce sull’uomo che vive nell’illusione di mantenersi al passo con i tempi dimenticando che “E’ dal cuore umano che nasce e si sviluppa la nube tossica delle paure contemporanee”
Ma esiste un antidoto contro le paure, il Vangelo dell’antipaura come amava definirlo Don Tonino: “Alzatevi…Levate il capo” (Lc 21, 25-28.34-36). E’ il Vangelo che si legge la prima domenica di Avvento in cui Gesù esorta alla preghiera e alla fiducia nella liberazione definitiva da ogni timore, da ogni paura, da ogni negatività.
Forse anche per la sintonia con la spiritualità francescana (faceva parte dell’Ordine Francescano Secolare) Don Tonino amava lasciarsi guidare dal Vangelo “sine glossa”, senza sconti sulla verità né diluizioni o prudenze carnali. Non a caso si definiva “Un buono a nulla. Ma capace di tutto, perché consapevole che, quanto più ci si abbandona a Dio, tanto più si riesce a migliorare la gente che ci sta attorno”.
Don Tonino era anche un vero innamorato dell’Immacolata e, in molti suoi scritti, questo amore diventava una continua dichiarazione d’amore nei confronti della Mamma Celeste.
Dal 22 al 29 luglio 1991, predicò un Corso di Esercizi Spirituali in occasione del 40° Pellegrinaggio della Lega Sacerdotale Mariana a Lourdes da cui venne tratto lo stupendo volume “Cirenei della gioia”. Condivise con i sacerdoti malati quel momento in cui il cuore umano si affida senza riserve alla grazia di Dio, chiedendo l’intercessione della Vergine Santa, offrendo al Signore la propria debolezza e precarietà terrena.
Don Tonino era abituato a prolungate soste davanti Tabernacolo, da cui traeva energia e ispirazione e molte delle lettere che spediva a coloro che, spesso addolorati e affranti si rivolgevano a lui, nascevano proprio nel cuore di una veglia notturna quando era a tu per tu con Dio.
Anche riguardo al tema della sofferenza, Don Tonino rimase sempre aderente allo spirito evangelico che ne sottende il senso. Aveva a che fare con i malati, i disabili, con coloro che nessuno considerava e che rimanevano silenziosi nel loro dolore; dolori diversi ma pur sempre urenti, che lacerano l’anima, che hanno la voce soffocata dall’indifferenza collettiva, che creano cicatrici evidenti nel cuore di chi li deve subire. Ma per Don Tonino, la sofferenza trova un senso vero solo se condivisa amorevolmente con Dio. Dice infatti: “C’è anche il caso, comunque, ed è molto frequente, che il dolore rafforzi l’intimità col Signore: il quale viene riscoperto non tanto come estremo rifugio di consolazione, ma come colui che “ben conosce il patire” e che sa solidarizzare fino in fondo con tutta la nostra esperienza”.
Parole profetiche. Colpito da un male inguaribile mantenne sempre fede ai suoi impegni di pastore d’anime con entusiasmo ma, soprattutto, con un’umanità davvero straordinaria, nonostante le sofferenze che lo tormentavano. La malattia di Don Tonino era una di quelle che non perdona, che produce dolori tremendi, che sfianca il corpo e debilita lo spirito.
Eppure non cessò un solo attimo di affrontare anche sofferenze che non gli appartenevano direttamente, lasciando sempre spazio a chi chiedeva aiuto o desiderava una risposta convincente sull’assurdità del dolore. Consumò lentamente i suoi ultimi mesi di vita tra la sua gente, tra i suoi poveri, tra gli inascoltati gridi della “gente comune”. La morte colse prematuramente Don Tonino il 20 aprile del 1993 a 58 anni.

Testo ed immagine tratti da www.santiebeati.it

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CLELIA MARIA RUSSO

Gaeta, 23 novembre 1845 – Napoli, 27 agosto 1903

Quante giovani figure di laici e laiche, hanno trasformato la loro casa e il loro letto di dolore, perché colpiti da infermità dolorose e invalidanti, in un luogo di accoglienza, per i bisognosi di un conforto e di un consiglio, e in un altare di espiazione e di offerta delle loro sofferenze, per amore di Cristo e per la salvezza delle anime.
Ne ricordiamo qualcuna, Serva di Dio Luigia Mazzotta (1900-1922), Serva di Dio Luisa Piccarreta (1865-1947), Servo di Dio Luigi Avellino (1862-1900), Servo di Dio Angelo Bonetta (1948-1968), Servo di Dio Francesco vevan (1840-1874), Servo di Dio Silvio Dissegna (1967-1979), ecc.
E come loro, fu vittima di espiazione, la Serva di Dio Clelia Maria Russo, nata a Gaeta il 23 novembre 1845, ultima dei sedici figli di Pasquale Russo, generale di artiglieria nell’Esercito Borbonico e di Gaetana dei marchesi Gadaleto, originaria di Lecce.
In quel periodo del ‘Risorgimento’ italiano, l’esercito borbonico era in uno stato di allarme e le truppe si spostavano nel Regno delle Due Sicilie secondo le necessità emergenti, e anche la famiglia Russo seguì il padre, trasferito prima in Puglia e poi in Sicilia.
Verso il 1860 la famiglia era a Napoli, mentre Garibaldi effettuava la conquista del Regno con la spedizione dei Mille; Clelia allora undicenne, fu iscritta al Regio Educandato dei Miracoli di Napoli, ma lo frequentò solo per due anni, perché la famiglia la ritirò quando cominciarono a manifestarsi i disturbi di varie malattie, che condizionarono la sua vita sino alla fine; di questa esperienza educativa le rimase la fraterna amicizia con la direttrice dell’Educandato, Bianchina Dusmet.
Per queste numerose infermità, visse sempre in famiglia, costretta a letto, sofferente ma piena di spiritualità, caratterizzata da una volontaria accettazione dei dolori e rinunce, partecipando intensamente alla Passione di Cristo.
L’assistettero spiritualmente tutta una schiera di ottimi sacerdoti di gran fama, il canonico Francesco Minervino, l’agostiniano padre Mariano Amodei, don Federico Pizza poi arcivescovo di Manfredonia, don Alessandro Gicca, don Vincenzo Sarnelli poi arcivescovo di Napoli ed altri.
Per anni questi sacerdoti celebrarono nell’oratorio privato della sua casa di Napoli, che Clelia aveva ottenuto per uno speciale permesso, a causa delle sue cattive condizioni di salute.
Fu dotata del dono del saper consigliare e la sua casa divenne così il centro di un vasto movimento di persone, che vi si recavano a chiedere una guida spirituale e preghiere.
Morì a Napoli a 58 anni, il 27 agosto 1903; per i suoi meriti e la diffusa fama di santità, furono aperti i processi informativi nella Diocesi di Napoli; il 15 marzo 1906 fu effettuata la ricognizione canonica dei suoi resti. Nella Cappella dell’Arciconfraternita dei Nobili della Vita, nel cimitero della città. Il 27 febbraio 1924 si ebbe il decreto sugli scritti e da allora la causa presso la Congregazione Vaticana, è in fase ‘silent’.

Testo ed immagine tratti da www.santiebeati.it

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ANGELO BONETTA

Cigole (Brescia), 18 settembre 1948 – 28 gennaio 1963

Come le faville di un crepitante fuoco, si innalzano luminose e ardenti verso l’alto, ma non tutte raggiungono la stessa altezza, spegnendosi prima delle altre oppure ricadendo nel fuoco che le ha generate; così fra gli esseri umani vi sono talune anime, che ancora nel germoglio della vita, ritornano al Padre prima di altri coetanei, senza vedere compiuto un lungo percorso di vita.
È il caso dei tanti bambini, ragazzi e adolescenti, colpiti nel pieno dello sviluppo fisico e psichico, da malattie inguaribili o da incidenti mortali; lo smarrimento dei parenti è tanto più grande, quando il Calvario è prolungato e la fine comunque certa.
La sofferenza vissuta da ragazzi e adolescenti è ancora più straziante, perché oltre il dolore è visibile una vitalità, tipica dell’età, compressa e bloccata dal male e dallo stare a letto; inoltre in tanti colpisce la serenità e l’accettazione della volontà di Dio, a volte difficile a trovarsi negli adulti.
La Chiesa, le comunità parrocchiali e civili, le Associazioni, gli stessi parenti ed amici, hanno provveduto dopo la loro immatura morte, a trasmettere in vari modi i messaggi emanati con la loro, sia pur breve vicenda terrena, ma soprattutto ad additarne gli esempi al distratto, convulso, frettoloso, mondo dei giovani d’oggi.
Alcuni sono Servi di Dio, altri Venerabili o già Beati e Santi, altri ancora vengono definiti ‘Testimoni della fede del nostro tempo’; citiamo alcuni di questi ragazzi, splendore della fede cristiana, angeli di passaggio sulla terra che hanno lasciato una luminosa scia di virtù, purezza, esempio, amore:
Silvio Dissegna 12 anni di Moncalieri; Aldo Blundo 15 anni di Napoli; Angela Iacobellis 13 anni di Napoli; Giuseppe Ottone 13 anni di Torre Annunziata; Maggiorino Vigolungo 14 anni di Benevello (Cuneo); Mari Carmen Gonzalez-Valerio 9 anni spagnola; Laura Vicuña 13 anni cilena; s. Domenico Savio 15 anni oratoriano di Torino; Aldo Marcozzi, 14 anni di Milano; Paola Adamo 15 anni di Taranto; Ninni Di Leo 16 anni di Palermo; Pietro Percumas 19 anni lituano; Domenico Zamberletti 13 anni di Varese; Willy De Koster 10 anni messicano; ecc.

A loro bisogna aggiungere il Servo di Dio Angelo Bonetta, adolescente di 14 anni, che nacque il 18 settembre a Cigole (Brescia) da Francesco Bonetta e Giulia Scarlatti.
Vivacissimo e intelligente crebbe con l’argento vivo addosso, come si suol dire, sempre pronto a combinare guai uno dietro l’altro, provocando così la forte reazione di genitori.
E nell’ambito di questa vivacità, a stento tenuta a freno, si inserisce la sua passione per il nuoto; Angelo andava spesso da ragazzino a fare il bagno nel fiume Mella, abbastanza pericoloso come tutti i fiumi, e ciò di nascosto dei genitori, con la complicità della sorella; naturalmente quando la sorella confessò alla madre le scappate di Angelo, questi le prese di santa ragione con la proibizione di nuotare nel fiume.
Frequentò l’asilo dalle Suore Canossiane, le quali vigilanti ed attente, notarono la forte predisposizione alla preghiera del piccolo Angelo e la profonda devozione per Gesù; pertanto l’aiutarono ad accrescere negli anni successivi, l’amore per l’Eucaristia e per il sacramento della Confessione; le Suore furono sempre per Angelo una seconda famiglia e la loro scuola una seconda casa; la sua bontà vevano na da quegli occhi vispi ma sinceri.
Il 14 aprile 1955 a sei anni, preparato dalle Suore Canossiane, ricevé la Prima Comunione; faceva il chierichetto con entusiasmo, servendo la Messa ogni domenica, simpatico con gli amici e con i più piccoli, giocava molto bene a calcio, soprattutto arbitrava riscuotendo la fiducia dei compagni.
Terminate le elementari, a 11 anni entrò in un Collegio a Brescia per continuare gli studi, ma dopo appena quindici giorni cominciò a zoppicare vistosamente per dei dolori acutissimi ad un ginocchio; riportato in fretta e furia a casa, i genitori lo ricoverarono in ospedale a Brescia per accertamenti approfonditi; purtroppo si trattava di un tumore.
Iniziò così un lungo e doloroso Calvario, fra cure intense e ricoveri, culminato alla fine con l’amputazione della gamba il 2 maggio 1961; il periodo post-operatorio fu difficile, forti dolori fisici si associarono a quelli psichici, scaturiti dal sapere che non aveva più una gamba.
Aveva solo 12 anni e nei momenti più difficili, trovò la forza di invocare l’aiuto di Gesù e della Madonna: “Signore, ti ho offerto tutto per i poveri peccatori, ma ora aiutami Tu a non negarti nulla”.
Sul comodino aveva la storia dei bambini veggenti di Fatima, ai quali la Madonna aveva rivolto l’invito ad offrire penitenze e preghiere per la conversione dei peccatori e Angelo o Angelino, come veniva chiamato, si riprometteva di imitarli.
Nella lunga convalescenza in Ospedale, conobbe il Centro dei Volontari della Sofferenza e si convinse che finché un malato ha un minimo di forze, le deve offrire con Gesù Crocifisso per la salvezza del mondo; così venne invitato a pregare ed offrire le sue sofferenze man mano, per un protestante grave, per un uomo di 60 anni da tanto lontano dai Sacramenti; per un giovane ateo irremovibile.
Ritornato a casa, si organizzò una festa per lui, ma gli amici imbarazzati e intristiti per la sua gamba persa, non erano dell’umore adatto a divertirsi e Angelino allora se ne uscì con una battuta che ruppe il ghiaccio, fra lo stupore dei presenti: “Cosa sono quelle facce, questa è una festa? Guardate al positivo, ora faccio più presto a lavarmi i piedi e a tagliarmi le unghie”.
La menomazione non lo bloccò, sempre scherzoso e di buon umore, si muoveva con disinvoltura con le stampelle; partecipò nell’agosto del 1961 agli esercizi Spirituali tenuti a Re (Novara) dai Volontari della Sofferenza, diventando amico di tutti e modello per gli ammalati.
Minimizzando il suo male, prese a confortare i degenti dei vari reparti ospedalieri, dove veniva ricoverato di volta in volta, sollecitandoli ad una pacata rassegnazione e a rinforzarsi con la preghiera.
Ma questo adolescente di 13 anni desiderava donarsi più completamente a Dio, la sua giovane età era però un impedimento; di questo piccolo apostolo, si accorse mons. Luigi Novarese (1914-1984), oggi Servo di Dio, fondatore nel 1947 dei ‘Volontari della Sofferenza’, che nel maggio 1962 invitò Angelino a prepararsi per consacrarsi al Signore.
E il 21 settembre 1962, a nemmeno 14 anni, pronunciò i voti di castità, obbedienza e povertà, nel sodalizio dei “Silenziosi Operai della Croce”, fondati anch’essi da don Novarese l’1/11/1950.
Fu la gioia più grande di quei lunghi anni di dolore, ma una ventina di giorni dopo, il 12 ottobre 1962, si mise a letto per non alzarsi più.
Purtroppo nonostante l’amputazione, il tumore avanzava nel suo giovane e provato corpo, procurando altri lunghi mesi di martirio, utili per il Paradiso e per la conversione delle anime.
Una notte disse alla mamma: “Se io morissi presto, tu cosa faresti?” e lei subito rispose: “Compiremmo insieme la volontà di Dio!”; questa sublime affermazione rasserenò Angelo, che presentiva l’ora della partenza per il Paradiso.
Il 27 gennaio 1963, il parroco lo confessò e gli portò l’Eucaristia come Viatico e amministrò l’Unzione degli Infermi; fino a mezzanotte Angelo continuò a pregare con i presenti, poi si addormentò; verso le due di notte si svegliò e guardando dolcemente la madre disse: “Mamma, ci siamo. Ecco la mia ora”, e fissando la statuetta della Madonna sul comodino si addormentò nel Signore, era il 28 gennaio 1963.
Il 19 maggio 1998 è stata aperta la Causa per la sua beatificazione.

Testo tratto da www.santiebeati.it

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CHIARA LUCE BADANO


Visse a Sassello con il padre Ruggero, camionista, e la madre Maria Teresa, casalinga. Volitiva, tenace, altruista, di lineamenti fini, snella, grandi occhi limpidi, sorriso aperto, ama la neve e il mare, pratica molti sport. Ha un debole per le persone anziane che copre di attenzioni. A nove anni conosce i ‘Focolarini’ di Chiara Lubich ed entra a fare parte dei ‘Gen’.
Dai suoi quaderni traspare la gioia e lo stupore nello scoprire la vita. Terminate le medie a Sassello si trasferisce a Savona dove frequenta il liceo classico.
A sedici anni, durante una partita a tennis, avverte i primi lancinanti dolori ad una spalla: callo osseo la prima diagnosi, osteosarcoma dopo analisi più approfondite. Inutili interventi alla spina dorsale, chemioterapia, spasmi, paralisi alle gambe. Rifiuta la morfina che le toglierebbe lucidità. Si informa di tutto, non perde mai il suo abituale sorriso. Alcuni medici, non praticanti, si riavvicinano a Dio.
La sua cameretta, in ospedale prima e a casa poi, diventa una piccola chiesa, luogo di incontro e di apostolato: “L’importante è fare la volontà di Dio…è stare al suo gioco…Un altro mondo mi attende…Mi sento avvolta in uno splendido disegno che, a poco a poco, mi si svela…Mi piaceva tanto andare in bicicletta e Dio mi ha tolto le gambe, ma mi ha dato le ali…”
Chiara Lubich, che la seguirà da vicino, durante tutta la malattia, in un’affettuosa lettera le pone il vevano na di ‘Luce’.
Mons. Livio Maritano, vescovo dicocesano, così la ricorda: “…Si sentiva in lei la presenza dello Spirito Santo che la rendeva capace di imprimere nelle persone che l’avvicinavano il suo modo di amare Dio e gli uomini. Ha regalato a tutti noi un’esperienza religiosa molto rara ed eccezionale”.
Negli ultimi giorni, Chiara non riesce quasi più a parlare, ma vuole prepararsi all’incontro con ‘lo Sposo’ e si sceglie l’abito bianco, molto semplice, con una fascia rosa. Lo fa indossare alla sua migliore amica per vedere come le starà. Spiega anche alla mamma come dovrà essere pettinata e con quali fiori dovrà essere addobbata la chiesa; suggerissce i canti e le letture della Messa. Vuole che il rito sia una festa.
Le ultime sue parole: “Mamma sii felice, perché io lo sono. Ciao!”.
Muore all’alba del 7 ottobre 1990. Da allora la sua tomba, a Sassello, è meta di pellegrinaggi, soprattutto da parte dei giovani: fiori, letterine, offerte per i ‘suoi’ negretti dell’Africa, richieste di grazie.
Il processo per la causa di beatificazione di Chiara dopo la chiusura dell’inchiesta diocesana preliminare (iniziata il 7 dicembre 1998), prosegue dal 7 ottobre 2000 presso la Congregazione dei Santi, a Roma.

Testo ed immagine tratti da www.santiebeati.it

http://www.santiebeati.it/dettaglio/91545



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GEMMA GALGANI

 



11 aprile – Comune
Lucca, 12 marzo 1878 – 11 aprile 1903

Gemma Galgani nasce il 12 marzo 1878 a Bogonuovo (Lucca), riceve il battesimo il 13 marzo. Il 26 maggio 1885, nella chiesa di San Michele in Foro, l’arcivescovo di Lucca somministra a Gemma la Cresima. La mamma Aurelia muore nel settembre del 1886. Un altro grande dolore per Gemma fu la morte del fratello Gino, seminarista, avvenuta nel 1894, ad appena 18 anni. Nel 1895 Gemma riceve l’ispirazione a seguire impegno e decisione la via della croce, quale itinerario cristiano. Gemma ha alcune visioni del suo angelo custode che le ricorda che i gioielli di una sposa del crocifisso sono la croce e le spine. L’11 novembre 1897 muore anche il padre di Gemma, Enrico, e le misere condizioni della famiglia, la costringono a lasciare la casa di via S. Giorgio per quella di via del Biscione, 13 (oggi via S. Gemma 23). Gemma trascorre un periodo a Camaiore, presso la zia che l’aveva voluta con sé dopo la morte del babbo, ma nell’autunno 1899 si ammala gravemente e ritorna in famiglia. I mesi invernali segnano grandi sofferenze per tutti e le ristrettezze economiche si fanno sentire penosamente sulla numerosa famiglia, oltre alle due zie Elisa ed Elena, vi sono i fratelli di Gemma, Guido, Ettore e Tonino, e le sorelle Angelina e Giulietta. Guido, il fratello maggiore, studia a Pisa e, dopo la laurea in farmacia, cerca di aiutare la famiglia lavorando presso l’ospedale di Lucca. Anche Tonino studia a Pisa con sacrificio di tutti. Nel periodo della malattia Gemma, legge la biografia del venerabile passionista Gabriele dell’Addolorata (ora santo). Gemma ha un’apparizione del venerabile che ha per lei parole di conforto. Gemma nel frattempo matura una decisione e la sera dell’8 dicembre, festa dell’Immacolata, fa voto di verginità. Nella notte seguente il venerabile Gabriele le appare nuovamente chiamandola “sorella mia” e porgendole a baciare il segno dei passionistiche gli posa sul petto. Nel mese di gennaio, al nulla delle terapie mediche, la malattia di Gemma, osteite delle vertebre lombari con ascesso agli inguini, si aggrava fino alla paralisi delle gambe. Ad aggravare la situazione, il 28 gennaio si manifesta anche un’otite purulenta con partecipazione della mastoide. Proprio in quei giorni, il fratello Guido si trasferisce a Bagni di San Giuliano dove ha ottenuto una farmacia. Gemma è confortata dalle visioni del venerabile Gabriele e del suo angelo custode, ma è tentata dal demonio, che riesce a vincere con l’aiuto del venerabile Gabriele, ormai sua guida spirituale. Il 2 febbraio i medici la danno per spacciata, secondo loro non supererà la notte, ma Gemma trascorre le giornate in preghiera, tra indicibili sofferenze. Il 3 marzo è il primo venerdì del mese e la giovane ha terminato una novena in onore della beata Margherita Maria Alacoque (ora santa) e si accostò all’eucarestia, quando avvenne la guarigione miracolosa. Il 23 dello stesso mese, tornata a casa dopo l’Eucaristia, Gemma ha una visione del venerabile Gabriele, che le indica il Calvario come meta finale. Il 30 marzo, Giovedì Santo, Gemma è in preghiera, compie l’«Ora Santa» in unione a Gesù nell’Orto degli Ulivi, e Gesù a un tratto le appare ferito e sofferente. Nell’aprile seguente, preoccupata di non sapere amare Gesù, Gemma si trova nuovamente davanti al Crocifisso e ne ascolta parole di amore: Gesù ci ha amati fino alla morte in Croce, è la sofferenza che insegna ad amare. L’8 giugno, dopo essersi accostata all’Eucarestia, Gesù le appare annunciandole una grazia grandissima. Gemma, sente il peso dei peccati, ma ha una visione di Maria, dell’angelo custode e di Gesù, Maria nel nome di suo Figlio li rimette i peccati e la chiama alla sua missione Dalle ferite di Gesù non usciva più sangue, ma fiamme che vennero a toccare le mani, i piedi e il cuore di Gemma. Gemma si sentiva come morire, stava per cadere in terra, ma Maria la sorreggeva e quindi la baciò in fronte. Gemma si trovò in ginocchio a terra con un forte dolore alle mani, ai piedi e al cuore, dove usciva del sangue. Quei dolori però anziché affliggerla gli davano una pace perfetta. La mattina successiva si recò all’Eucarestia, coprendo le mani con un paio di guanti. I dolori le durarono fino alle ore 15 del venerdì, festa solenne del Sacro Cuore di Gesù». Da quella sera, ogni settimana Gesù chiamò Gemma ad essergli collaboratrice nell’opera della salvezza, unendola a tutte le Sue sofferenze fisiche e spirituali. Questa grazia grandissima fu motivo per Gemma di ineffabili gioie e di profondi dolori. In casa vi fu perplessità e incredulità per quanto avveniva, Gemma era spesso rimproverata dalle zie e dai fratelli, talvolta veniva derisa e canzonata dalle sorelle, ma Gemma taceva e attendeva. Nei mesi estivi conosce i Passionisti impegnati nella Missione popolare in Cattedrale e da uno di essi viene introdotta in casa Giannini. Gemma conosceva già la signora Cecilia, ma frequentandola nella casa di via del Seminario, inizia una vera e profonda amicizia con quella che le sarà come una seconda madre. Nel gennaio del 1900, Gemma comincerà a scrivere a padre Germano, il sacerdote passionista che avrebbe riconosciuto in lei l’opera di Dio e nel settembre successivo lo incontrerà personalmente. Sempre in settembre, Gemma lascia definitivamente la sua famiglia per andare ad abitare in casa Giannini, tornerà alla sua casa solo in rare occasioni per consolare la sorella Giulietta quando sofferente. Nel maggio del 1902 Gemma si ammala nuovamente, si riprende, ma ha una ricaduta in ottobre. Nel frattempo muiono la sorella Giulia (19 agosto) e il fratello Tonino (21 ottobre). Il 24 gennaio 1903, per ordine dei medici, la famiglia Giannini deve trasferire Gemma in un appartamento affittato dalla zia Elisa, Gemma vive così l’esperienza dell’abbandono di Gesù in croce e del silenzio di Dio. E’ fortemente tentata dal demonio, ma non smarrisce mai la fede, non perde mai la pazienza ed è sempre piena di amore e di riconoscenza verso chi l’assiste nella malattia. Al mezzogiorno dell’11 aprile 1903, Sabato Santo, come si usava allora, le campane vevano annunziato la risurrezione del Signore e alle 13.45, Gemma si addormenta nel Signore, assistita amorevolmente dai Giannini. Il 14 maggio 1933 papa Pio XI annovera Gemma Galgani fra i Beati della Chiesa. Il 2 maggio 1940 papa Pio XII, riconoscendo la pratica eroica delle sue virtù cristiane, innalza Gemma Galgani alla gloria dei Santi e la addita a modello della Chiesa universale.
La data di culto per la Chiesa universale è l’11 aprile, mentre la Famiglia Passionista e la diocesi di Lucca la celebrano il 16 maggio.

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ANNA SCHAEFFER


5 ottobre
Mindelstetten (Baviera, Germania), 18 febbraio 1882 – 5 ottobre 1925

E’ la terza degli otto figli del falegname bavarese Michele Schaeffer e di Teresa Forster. Famiglia di non molte risorse: tutti vivono sui modesti guadagni del padre. Anna riceve l’istruzione elementare nelle scuole di Mindelstetten e prende a coltivare un sogno: diventare suora e andare missionaria in terre lontane. Ma occorre un po’ di dote per essere accolta in una congregazione religiosa, e per metterla insieme lei cerca lavoro a Ratisbona (Regensburg). La prende a servizio una famiglia di benestanti, e questo è il primo passo verso l’avverarsi del sogno.
Ma è anche l’ultimo, sebbene Anna non lo sappia ancora. Un anno dopo, infatti, suo padre muore, e lei deve tornare a Mindelstetten per aiutare la famiglia orfana, con cinque fratelli e sorelle più piccoli di lei. Ancora lavoro, dunque, in casa e nelle famiglie del posto. Trascorrono così alcuni anni; i piccoli di casa crescono e forse presto non ci sarà più tanto bisogno di lei: forse potrà ripensare alla missione lontana… Ma il 14 febbraio 1901, a diciannove anni, ecco la disgrazia che fa di lei un’invalida per sempre. Accade nella lavanderia della casa forestale di Stammham, presso Ingolstadt, dove lei lavora: una canna fumaria sta per sfilarsi e cadere, lei si arrampica per rimetterla a posto, ma va a cadere dentro una vasca di acqua calda con lisciva, e ne riporta ustioni dolorosissime alle gambe, fino ai ginocchi. La curano nell’ospedale di Kosching e poi nel centro medico universitario di Erlangen; ma c’è ben poco da fare contro le piaghe che l’azione corrosiva del detergente ha provocato. Anna torna nella sua casa di Mindelstetten dopo mesi di ricovero, e si ritrova invalida per sempre, mentre i suoi sono diventati più poveri di prima.
Una disgrazia dopo l’altra: la famiglia è in rovina, e lei prigioniera dei suoi dolori, resi insopportabili dalla certezza che non hanno rimedio, che non finiranno mai. Tutto questo a 21 anni: una situazione insopportabile, anche per lei così ricca di fede. E infatti non accetta di ritrovarsi così. Si ribella a questo patire senza speranza, lo dice ai suoi, alle amiche, a padre Karl Rieder, il suo parroco.
La conquista della serenità non avviene per illuminazioni improvvise. È una fatica lunga, che porta Anna a convincersi: la sua non è una condanna; è un compito che le affida il Signore al quale si è consacrata: essere “missionaria” così, dal letto e dalle piaghe. Infine, ecco l’accettazione. Non come una resa, ma come atto di volontà: Anna offre le sue sofferenze al Signore. E ne ha molte da offrire: quelle dovute alla disgrazia in lavanderia e poi altre ancora: paralisi totale delle gambe, irrigidimento del midollo spinale, tumore all’intestino… Così piagata, parla dei suoi “sogni”, nei quali le appaiono il Signore e san Francesco.
Consiglia e incoraggia la gente venuta a chiederle aiuto e sostegno. Si scopre magnificamente necessaria, indispensabile, ai sani e ai sicuri: da quel letto è sempre “in servizio”, a voce e anche scrivendo lettere. Non lascia “ultime parole” o raccomandazioni prima di morire. Nel settembre 1925, una caduta dal letto le toglie la voce. Si spegne con un sussurro: «Gesù, io vivo in te». E resta dopo la morte una presenza forte nel suo mondo bavarese. Sepolto dapprima nel cimitero, il corpo verrà poi trasportato nella chiesa parrocchiale di Mindelstetten. Giovanni Paolo II la proclamerà beata nel 1999.

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ANNA KATHARINA EMMERICK


9 febbraio
Flamske (Germania), 8 settembre 1774 – Dülmen, 9 febbraio 1824

Finalmente questa venerabile suora, mistica, veggente, stigmatizzata del secolo XVIII, è giunta alla fine di un lungo processo di canonizzazione, durato più di 135 anni, papa Giovanni Paolo II l’ha scritta nell’albo dei Beati il 3 ottobre 2004.
Anna Catharina Emmerick nacque l’8 settembre 1774 a Flamske bei Coestfeld (Westfalia, Germania); i suoi genitori Bernardo Emmerick e Anna Hillers, erano di umile condizione ma buoni cattolici.
Da bambina faceva la pastorella e in questo periodo avvertì la vocazione a farsi religiosa, ma incontrando l’opposizione del padre; durante la sua giovinezza Dio la colmò di grandi doni, come fenomeni di estasi e visioni.
Ma questo non le giovò, in quanto fu rifiutata da varie comunità; nel 1802 a 28 anni, grazie all’interessamento dell’amica Clara Soentgen, una giovane della borghesia, ottenne alla fine di entrare nel monastero delle Canonichesse Regolari di S. Agostino di Agnetenberg presso Dülmen.
La vita nel monastero fu per lei molto dura, perché non della stessa condizione sociale delle altre e questo le veniva fatto pesare, come pure le si rimproverava di essere stata accolta dietro insistenti pressioni.
A ciò si aggiunse che soffrì di varie infermità, per le conseguenze di un incidente patito nel 1805, fu costretta a stare quasi continuamente nella sua stanza, dal 1806 al 1812.
Quando era una contadina riusciva a tenere nascosti i fenomeni mistici che si manifestavano in lei, ma nel monastero, un ambiente più ristretto, ciò non le riusciva, pertanto alcune suore o per zelo o per ignoranza la fecero oggetto di insinuazioni maligne e sospetti di ogni genere.
Nel 1811 il convento fu soppresso dalle leggi francesi di Napoleone Bonaparte e le suore disperse; Anna Caterina Emmerick nel 1812 si mise allora al servizio di un sacerdote, emigrato a Dülmen proveniente dalla diocesi francese di Amiens, don Giovanni Martino Lambert.
Ed in casa del sacerdote verso la fine di quell’anno, i fenomeni sempre presenti prima, si moltiplicarono e negli ultimi giorni di dicembre 1812 ricevette le stigmate; per due mesi riuscì a tenerle nascoste, ma il 28 febbraio 1813 non poté lasciare più il letto, che diventò il suo strumento di espiazione per i peccati degli uomini, unendo le sue sofferenze a quelle della Passione di Gesù.
Fu sottoposta ad un’indagine sulle stigmate, sulle sofferenze della Passione e sui fenomeni mistici che si manifestavano in lei, indagine che confermò la sua assoluta innocenza e il carattere soprannaturale dei fenomeni.
Si sa che ebbe visioni riguardanti la vita di Gesù e di Maria, ma soprattutto della Passione di Cristo; ad esempio fece individuare la casa della Madonna ad Efeso e il castello di Macheronte nel quale fu decapitato san Giovanni Battista.
È diventato difficile sapere quali visioni furono effettivamente sue, perché un suo contemporaneo, il poeta e scrittore Clemente Brentano (1778-1842) le pubblicò facendo delle aggiunte e abbellimenti al suo racconto, creando così una grande confusione, che pesò fortemente sul futuro processo di beatificazione.
Anna Caterina Emmerick morì a Dülmen il 9 febbraio 1824, diventando una delle Serve di Dio più conosciute in Europa.
Per l’appartenenza da suora all’Ordine delle Agostiniane, i monaci di S. Agostino promossero la sua causa di beatificazione, che come già accennato subì varie battute di arresto, interventi di vescovi e dello stesso papa Leone XIII, coinvolgimenti nelle vicende politiche della Germania, ecc., finché il 4 maggio 1981 ci fu il decreto sull’introduzione della causa.

Testo ed immagine tratti da www.santiebeati.it

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ALESSANDRINA MARIA DA COSTA


13 ottobre
Balasar (Portogallo), 3 marzo 1904 – Balasar, 13 ottobre 1955

Alessandrina Maria da Costa nacque a Balasar, in provincia di Oporto e Arcidiocesi di Braga il 30 marzo 1904, e fu battezzata il 2 aprile seguente, sabato santo.Venne educata cristianamente dalla mamma, insieme alla sorella Deolinda. Alessandrina rimase in famiglia fino a sette anni, poi fu inviata a Pòvoa do Varzim in pensione presso la famiglia di un falegname, per poter frequentare la scuola elementare che a Balasar mancava. Qui fece la prima comunione nel 1911, e l’anno successivo ricevette il sacramento della Confermazione dal Vescovo di Oporto.
Dopo diciotto mesi tornò a Balasar e andò ad abitare con la mamma e la sorella nella località “Calvario”, dove resterà fino alla morte.
Cominciò a lavorare nei campi, avendo una costituzione robusta: teneva fronte agli uomini e guadagnava quanto loro. La sua fu una fanciullezza molto vivace: dotata di un temperamento felice e comunicativo, era molto amata dalle compagne. A dodici anni però si ammalò: una grave infezione (forse una febbre intestinale tifoidea) la portò ad un passo dalla morte. Superò il pericolo, ma il fisico resterà segnato per sempre da questo episodio.
Fu all’età di quattordici anni che avvenne un fatto decisivo per la sua vita. Era il sabato santo del 1918. Quel giorno lei, la sorella Deolinda e una ragazza apprendista erano intente nel loro lavoro di cucito, quando si accorsero che tre uomini tentavano di entrare nella loro stanza. Nonostante le porte fossero chiuse, i tre riuscirono a forzare le porte ed entrarono. Alessandrina, per salvare la sua purezza minacciata, non esitò a gettarsi dalla finestra, da un’altezza di quattro metri. Le conseguenze furono terribili, anche se non immediate. Infatti le varie visite mediche a cui fu sottoposta successivamente diagnosticarono con sempre maggiore chiarezza un fatto irreversibile.
Fino a diciannove anni poté ancora trascinarsi in chiesa, dove, tutta rattrappita, sostava volentieri, con grande meraviglia della gente. Poi la paralisi andò progredendo sempre di più, finché i dolori divennero orribili, le articolazioni persero i loro movimenti ed essa restò completamente paralizzata. Era il 14 aprile 1925, quando Alessandrina si mise a letto per non rialzarsi più, per i restanti trent’anni della sua vita.
Fino al 1928 essa non smise di chiedere al Signore, mediante l’intercessione della Madonna, la grazia della guarigione, promettendo che, se fosse guarita, sarebbe andata missionaria. Ma, appena capì che la sofferenza era la sua vocazione, l’abbracciò con prontezza. Diceva: “Nostra Signora mi ha fatto una grazia ancora maggiore. Prima la rassegnazione, poi la conformità completa alla volontà di Dio, ed infine il desiderio di soffrire”.
Risalgono a questo periodo i primi fenomeni mistici, quando Alessandrina iniziò una vita di grande unione con Gesù nei Tabernacoli, per mezzo di Maria Santissima. Un giorno in cui si trovava sola, le venne improvvisamente questo pensiero: “Gesù, tu sei prigioniero nel Tabernacolo ed io nel mio letto per la tua volontà. Ci faremo compagnia”. Da allora cominciò la prima missione: essere come la lampada del Tabernacolo. Passava le sue notti come pellegrinando di Tabernacolo in Tabernacolo. In ogni Messa si offriva all’Eterno Padre come vittima per i peccatori, insieme a Gesù e secondo le Sue intenzioni.
Cresceva in lei sempre più l’amore alla sofferenza, a mano a mano che la vocazione di vittima si faceva sentire in maniera più chiara. Emise il voto di fare sempre quello che fosse più perfetto.
Dal venerdì 3 ottobre 1938 al 24 marzo 1942, ossia per 182 volte, visse ogni venerdì le sofferenze della Passione. Alessandrina, superando lo stato abituale di paralisi, scendeva dal letto e con movimenti e gesti accompagnati da angosciosi dolori, riproduceva i diversi momenti della Via Crucis, per tre ore e mezzo.
“Amare, soffrire, riparare” fu il programma che le indicò il Signore. Dal 1934 – su invito del padre gesuita Mariano Pinho, che la diresse spiritualmente fino al 1941 – Alessandrina metteva per iscritto quanto volta per volta le diceva Gesù.
Nel 1936, per ordine di Gesù, essa chiese al Santo Padre, per mezzo del padre Pinho, la consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria. Questa supplica fu più volte rinnovata fino al 1941, per cui la Santa Sede interrogò tre volte l’Arcivescovo di Braga su Alessandrina. Il 31 ottobre 1942 Pio XII consacrò il mondo al Cuore Immacolato di Maria con un messaggio trasmesso a Fatima in lingua portoghese. Questo atto lo rinnovò a Roma nella Basilica di San Pietro l’8 dicembre dello stesso anno.
Dal 27 marzo 1942 in poi Alessandrina cessò di alimentarsi, vivendo solo di Eucaristia. Nel 1943 per quaranta giorni e quaranta notti furono strettamente controllati da valenti medici il digiuno assoluto e l’anuria, nell’ospedale della Foce del Duro presso Oporto.
Nel 1944 il nuovo direttore spirituale, il salesiano don Umberto Pasquale, incoraggiò Alessandrina, perché continuasse a dettare il suo diario, dopo aver constatato le altezze spirituali a cui era pervenuta; ciò che essa fece con spirito di obbedienza fino alla morte. Nello stesso anno 1944 Alessandrina si iscrisse all’Unione dei Cooperatori Salesiani. Volle collocare il suo diploma di Cooperatrice “in luogo da poterlo avere sempre sotto gli occhi”, per collaborare col suo dolore e con le sue preghiere alla salvezza delle anime, soprattutto giovanili. Pregò e soffrì per la santificazione dei Cooperatori di tutto il mondo.
Nonostante le sue sofferenze, ella continuava inoltre ad interessarsi ed ingegnarsi a favore dei poveri, del bene spirituale dei parrocchiani e di molte altre persone che a lei ricorrevano. Promosse tridui, quarant’ore e quaresimali nella sua parrocchia.
Specialmente negli ultimi anni di vita, molte persone accorrevano a lei anche da lontano, attratte dalla fama di santità; e parecchie attribuivano ai suoi consigli la loro conversione.
Nel 1950 Alessandrina festeggia il XXV della sua immobilità. Il 7 gennaio 1955 le viene preannunciato che quello sarebbe stato l’anno della sua morte. Il 12 ottobre volle ricevere l’unzione degli infermi. Il 13 ottobre, anniversario dell’ultima apparizione della Madonna a Fatima, la si sentì esclamare: “Sono felice, perché vado in cielo”. Alle 19,30 spirò.
Sulla sua tomba si leggono queste parole da lei volute: “Peccatori, se le ceneri del mio corpo possono essere utili per salvarvi, avvicinatevi, passatevi sopra, calpestatele fino a che spariscano. Ma non peccate più; non offendete più il nostro Gesù!”. E’ la sintesi della sua vita spesa esclusivamente per salvare le anime.
A Oporto nel pomeriggio del giorno 15 ottobre i fiorai rimasero privi di rose bianche: tutte vendute. Un omaggio floreale ad Alessandrina, che era stata la rosa bianca di Gesù.

Testo ed immagine tratti da www.santiebeati.it

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* * *

Essi hanno vissuto nella sofferenza l’intimità con il Signore, scoprendolo non tanto come rifugio consolatorio, “ma come Colui che ben conosce il patire e che sa solidarizzare fino in fondo con tutta la nostra esperienza” (T. Bello).

Essi allora sono quel “noi tutti”, come dice Polo, che “a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore”, hanno manifestato la sua gloria che li abitava… e “di gloria in gloria” (perché la gloria di Cristo è frutto della sua Croce… “metti qui la mano”, dirà il Risorto a Tommaso!), hanno dato volto all’azione dello Spirito.

Ecco un tema di questa domenica, la conversione di questa domenica! Essere figlio che sa dare volto allo Spirito che lo abita. “Vieni Spirito Santo, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce”.

Lissone, 21 febbraio 2008

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BIBLIOGRAFIA E FONTI

- Dora Samà, La vita nascosta in Cristo – La Monachella di San Bruno, Sud Grafica Marina di Davoli (2006)
- AA. VV. da santibeati.it


* Non tutti i testi sono i miei… a me la ricerca, a ciascuno il suo!

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SEQUENZA

Vieni, Santo Spirito, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce.
Vieni, padre dei poveri, vieni, datore dei doni, vieni, luce dei cuori.
Consolatore perfetto; ospite dolce dell'anima, dolcissimo sollievo.
Nella fatica, riposo, nella calura, riparo,
nel pianto, conforto.
O luce beatissima, invadi nell'intimo il cuore dei tuoi fedeli.
Senza la tua forza, nulla è nell'uomo, nulla senza colpa.
Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina.
Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido,
drizza ciò che è sviato.
Dona ai tuoi fedeli che solo in te confidano i tuoi santi doni.
Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna. Amen.

 

Dello stesso autore:

 

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- Beata Colomba da Rieti

 

- Beate Ambrosiane

 

- Le beate terziarie minime di Milazzo: quattro o tre?


- Beato Enea da Faenza

 

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- Monselice e i suoi Martiri

 

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- Chi sarà mai costui - - Iconografia dei SantI - Prima parte


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- San Callisto


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- San Donato

- San Fabio (Gens Fabia)

 

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- San Sostene: un nome, due santi

- San Vincenzo Ferrer

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- Santa Cita di Serravalle


- Santa Liberata

 

- Santa Marina Vergine

- Santa Rosalia, tra i testimoni di Gesù

 

- Santi dai nomi Atipici :
Apollo, un santo dell'era apostolica
Eliana, la "Figlia del sole"
Genoveffa detta anche Ginevra

Ludovica "Colei che è gloriosa in battaglia"

Gigliola "Bella come un giglio "

- Santi di Canzo

- Santità di nome "Lucia"

- Santità di nome "Romeo"


- Sebastiano, Nobile atleta di Cristo

 

Santità e...

- Come la ginestra... (Santità calabrese)

- Dalla schiavitù alla santità

- In Defensum Castitatis


- Santi e lebbra

 

- Santi Patroni dei cultori di immagini sacre


- Santi e sofferenza

- Santità e Stigmate

- Santità ed Ecumenismo

- Santità Silvestrina

 

Altro:

- Santità e Chiese Ortodosse

- Sacro Cuore di Gesù e Santità e Sacro Cuore

- "Sarà chiamato Emmanuele"

- "Saremo condotti..."

 


- Siti personali di Don Damiano Grenci:

http://xoomer.alice.it/damiano.grenci/Home.html

 

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