Rubriche di
Patrizia Fontana Roca

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IL SACCO DI ROMA

 

 


 

 


ANTEFATTO

 

L’avvenimento che sto per narrare si inserisce in un più ampio contesto conflittuale per la supremazia in Europa, che vide confrontarsi il casato degli Asburgo e quello dei Valois, ossia FRANCESCO I° di Valois e CARLO V° d’Asburgo re di Spagna nonché imperatore del Sacro Romano Impero. Più precisamente si inserisce nel secondo conflitto che vide impegnati i due sovrani dal 1526 al 1529.

Carlo V in un dipinto di Rubens

Scudo di Carlo V

 

Carlo d’Asburgo fu eletto imperatore del sacro Romano Impero nel 1519 col nome di Carlo V°. Re di Spagna dal 1516 egli si trovò così a governare oltre che sulla Spagna ed i territori annessi di Napoli, Sicilia e Sardegna anche sulla terre famigliari degli Asburgo in Austria ed in Boemia, sulla Fiandra, i Paesi Bassi e sui territori appartenenti all’impero.

 

Era dai tempi di Carlo Magno che in Europa un sovrano non possedeva un dominio così vasto ma con l’aggiunta, rispetto al suo predecessore, delle immense colonie e davvero sul suo regno poteva dirsi che il sole non tramontasse mai. Ma per conquistare la corona imperiale del Sacro Romano Impero, Carlo aveva dovuto vedersela con un altro candidato al trono : il re di Francia Francesco I°.

 

Agli occhi dei principi elettori tedeschi i due candidati si equivalevano; ambedue, infatti, erano stranieri (Carlo era nato in Fiandra e Francesco in Francia ) e se il re di Spagna poteva vantarsi di essere il nipote del defunto imperatore, il re di Francia aveva dalla sua l’appoggio di papa Leone X° il quale temeva che il sovrano spagnolo già padrone dell’Italia meridionale, acquisisse anche la corona imperiale.

 

I sette elettori cui spettava la nomina, non sapendo chi scegliere, decisero di comune accordo e senza ombra di vergogna di mettere in vendita i loro voti al migliore offerente che alla fine risultò Carlo, il quale per accaparrarsi la corona imperiale sborsò una cifra enorme per quei tempi: un milione di fiorini.

Per il suo successo fu decisivo l’appoggio finanziario garantitogli dai banchieri tedeschi Welser e Fugger, che non mancarono successivamente di beneficiare abbondantemente per tale prestito; in parte con la restituzione del denaro ed in parte acquisendo l’esclusiva nel commercio di merci preziose e spezie dall’oriente.


Comunque anche se Carlo ebbe partita vinta, la questione non finì lì ed il conflitto fra i due Re si inasprì passando da confronto economico a confronto militare.


Questa rivalità fra i due lacerò profondamente l’Europa e lo scontro fra Spagna e Francia divenne la lotta per l’egemonia in Europa ed il teatro principale dello scontro fu l’Italia, che in quel tempo era il paese più ricco, più popolato e più colto d’Europa.

Il Ducato di Milano aveva per Carlo V° una importanza strategica fondamentale; infatti il suo controllo e soprattutto quello dei porti liguri ad esso soggetti, avrebbe reso possibile la comunicazione della Spagna con la Germania, i nuclei principali del suo dominio.

Ma se per Carlo V° era di vitale importanza il controllo del Ducato, era viceversa importante per Francesco I° che ciò non avvenisse, per evitare che il suo regno fosse circondato da Paesi dominati dal suo acerrimo rivale.


Da questo scontro di interessi nacque una guerra che si concluse negativamente per i francesi, con la sconfitta di Pavia del 1525 e la cattura dello stesso Francesco I°. L’imperatore vincitore conquistò il Ducato di Milano e vi pose come vassallo Francesco II° Sforza.

Francesco I di Valois

Papa Leone X

 

 

La vittoria di Pavia fu resa possibile dall’adozione da parte della fanteria spagnola del “moschetto “ (moschettiere era colui che lo usava) e tale impiego arrecò molte perdite all’esercito francese che ancora combatteva con i vecchi metodi ed in special modo rese quasi inutile l’utilizzo della cavalleria, che fino ad allora spesso aveva deciso l’esito di una battaglia.


Sconfitto e fatto prigioniero, Francesco I° fu costretto a firmare il Trattato di Madrid ( 1526 ) con il quale in cambio della libertà s’impegnò a cedere a Carlo V° i territori di Milano e della Borgogna. Carlo V° trionfava su tutti i fronti e divenne il monarca più potente di tutto l’occidente.
Ma se pensava con la firma del Trattato di aver risolto i suoi problemi si sbagliava; infatti tornato in Francia, Francesco I° non tenne fede a quanto sottoscritto, motivando questo suo comportamento col fatto che era stato costretto a firmarlo e di conseguenza non aveva nessuna intenzione di rispettarlo.

 

Questo “ tradimento “ mandò su tutte le furie Carlo V° che arrivò, secondo le usanze del tempo, a sfidare a duello il re fellone. Francesco I° consapevole che da solo non avrebbe mai potuto sconfiggere il suo rivale, decise di dar vita nel 1526 ad un’alleanza antiasburgica: la LEGA DI COGNAC a cui aderirono Firenze, Venezia, l’Inghilterra, il ducato di Milano ed anche il Papa CLEMENTE VII°.

 

La decisione del pontefice fece incollerire Carlo V° che decise di infliggergli una sonora punizione, ordinando a GIORGIO VON FRUNDSBERG, che comandava circa 12.000 mercenari lanzichenecchi di fede luterana, di marciare su Roma ed arrestare il Papa.

Papa Clemente VII

Giorgio von Frundsberg

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I L “ S A C C O “

 

I lanzichenecchi erano fanti mercenari al servizio del Sacro Romano Impero; il termine deriva dal tedesco Land (terra, patria) e Knecht (servitor ) e furono costituiti nel 1487 dall’imperatore Massimiliano I°.

 

L’evento che più li rese famosi fu proprio quello che sto per narrare; un episodio traumatico, che di fatto segnò la fine degli splendori papali dell’epoca rinascimentale.
Essi parteciparono a questa impresa, non solo col desiderio di accumulare ricchezze ma anche, essendo seguaci di Lutero, spinti dalla velleità di distruggere Roma che ai loro occhi rappresentava la sede dell’anticristo.

 

Appena fu diramato l’ordine da Carlo V°, l’esercito dei mercenari, radunato nel Tirolo al comando del Frundsberg, iniziò ad avanzare verso Roma e dovunque avveniva il passaggio per le popolazioni civili era un susseguirsi di rapine, saccheggi e distruzioni.

 

Contro questa masnada carica di odio e di vendetta fu inviato in Lombardia, con lo scopo illusorio di fermarli, GIOVANNI DELLE BANDE NERE al comando di 900 cavalieri. Questi, uno degli ultimi condottieri italiani, era chiamato così perché da quando era morto il suo grande protettore Leone X° non aveva smesso di indossare il lutto.

 

Egli, dopo aver prudentemente per qualche giorno seguito da lontano l’esercito lanzichenecco, ne attaccò la retroguardia presso Governolo, alla confluenza del Mincio col Po, infliggendogli la perdita di 300 soldati.

 

Massimiliano I

Giovanni dalle Bande Nere

 

Sfortunatamente la sera del 25 novembre 1526 rimase ferito gravemente ad uno stinco e la ferita ben presto degenerò in cancrena. A nulla valsero le cure dei medici ed il taglio della gamba ferita e la sera del 30 novembre tra atroci dolori rese l’anima a Dio a soli 28 anni.


Non avendo più nessun nemico che lo potesse contrastare validamente e rafforzato nel frattempo dall’arrivo della guarnigione imperiale di Milano, comandata dal conestabile duca di Borbone, Frundsberg si diresse con tutta questa schiera verso l’obiettivo prefissato ed i suoi mercenari ne approfittarono per fare della Lombardia la più devastata contrada della cristianità.


Nel frattempo, papa Clemente VII° atterrito dalle notizie che gli giungevano dell’avvicinarsi di questi nemici furiosi fece appello, senza successo, al viceré di Napoli perchè tentasse una mediazione per stipulare un armistizio col Frundsberg.

 

Questi, intanto, era impegnatissimo nel cercare di mantenere la disciplina fra i suoi uomini che di disciplina non avevano mai sentito parlare e proprio durante un litigio con alcuni di loro fu colto da un colpo apoplettico che lo mise fuori causa.

 

Il conestabile duca di Borbone lo sostituì al comando dei mercenari ma solo formalmente, perché anche lui era ormai in balia di quell’orda assetata di vendetta e di rapina, che non obbediva più a nessuno, nemmeno all’imperatore.
Una coltre di paura e di disperazione calò sull’Urbe come ai tempi di Alarico (410 d.c.) e Genserico (455 d.c.) autori degli unici due saccheggi che subì Roma e molti abitanti che erano in grado di poterlo fare, cominciarono a pensare di abbandonare la città per tentare di salvare la vita e mettere al sicuro quanti più beni possibili.


A rendere le cose ancora più fosche contribuì un bizzarro personaggio chiamato BRANDANO, un eremita di origine toscana che girava tutto il giorno per la città, novello Giovanni Battista, invitando alla penitenza ed alla conversione e profetizzando distruzione e morte per i suoi abitanti se non avessero dato ascolto alle sue parole, addossando la responsabilità principale di questo castigo al Papa ed ai prelati corrotti, che con la loro cattiva condotta avevano reso possibile tutto ciò.


Saccheggiata la Lombardia, le truppe proseguirono l’avanzata verso Roma e dopo aver invano tentato di entrare in Firenze e aver saccheggiato Viterbo e la campagna romana, finalmente il 5 maggio 1527 giunsero in prossimità delle mura della Città Eterna e si accamparono in attesa di sferrare l'assalto finale.


Il 6 maggio1527, favorite da una fitta nebbia mattutina, le truppe imperiali alla cui testa era il Borbone, iniziarono l’attacco usando le scale per salire sopra le mura che erano difese da pochi soldati e proprio dagli spalti un colpo di archibugio tirato da Benvenuto Cellini, mirabile orafo ed artista, ferì mortalmente il conestabile Carlo di Borbone.

 

 

Benvenuto Cellini

 

I soldati senza più un comandante supremo e pieni di rabbia per il ferimento del loro capo (che morirà quasi subito), dopo un breve combattimento riuscirono ad entrare nella Città dalla parte di Borgo, tra Castel Sant’Angelo ed il Vaticano, incalzando le truppe del Papa e facendone scempio.
Nel frattempo, protetto dalle guardie svizzere che pagarono tale protezione con la morte di 147 di loro, Clemente VII° riuscì con molta difficoltà a rifugiarsi in Castel Sant’Angelo, attraverso il famoso “Passetto “.


Il saccheggio di Roma che terminerà solo nel febbraio 1528 era iniziato. Furono nove mesi di violenze incredibili, di torture, di furti, di rapimenti, di omicidi, di stupri, di chiese violate e di palazzi saccheggiati ed a volte distrutti; nulla fu risparmiato: né donne, né bimbi, né immagini sacre, tanto da far dire a molti storici che questo saccheggio superò in crudeltà ed efferatezza persino quello di Alarico!


Chiunque avesse girato per Roma sia di giorno che di notte non avrebbe visto che strade piene di cadaveri e sentito pietosi lamenti ed urla laceranti; infatti le persone catturate (nobili, prelati, cardinali, mercanti) venivano torturate orribilmente per indurle a confessare il luogo ove avessero messo i loro beni. Se confessavano avevano salva la vita (non sempre), altrimenti la loro sorte era segnata.


Mentre Clemente era rinchiuso al sicuro a Castel Sant’Angelo insieme a cardinali, vescovi, nobili e pochi soldati, il popolo subiva le più strazianti torture: alcuni venivano appesi per le braccia al soffitto delle loro case rimanendovi per diverse ore finchè non avessero rivelato dove avevano nascosto il loro patrimonio.

 

Altri venivano legati per le parti vitali o per un piede alle finestre di casa, altri alle sponde del Tevere con la minaccia di tagliare le corde se non avessero confessato quanto volevano i loro carnefici. Tante erano le sofferenze che non pochi preferirono darsi la morte da sé per evitare la continuazione delle torture. E tali torture furono senza limiti come si evince da alcuni esempi che ora riporterò.


Un giorno venne catturato il cardinale Araceli che, dopo essere stato picchiato e deposto in una bara, venne portato per Roma accompagnato da un canto funebre e infine venne condotto in una chiesa dove venne recitata per lui l’orazione funebre.

Quindi i suoi carcerieri lo riportarono a casa e presi dalla sua cantina i migliori vini si ubriacarono, bevendo nei calici d’oro rubati nelle chiese.


Un altro giorno fu visto per Roma un asino vestito dei paramenti sacri ed un sacerdote ucciso ai piedi dell’animale; il prete era stato ucciso perchè si era rifiutato di dare il SS. Sacramento al somaro.

 

Era usuale vedere passeggiare per le vie della città i mercenari in compagnia delle loro concubine, ricoperti di drappi preziosi, di gioielli e con in mano coppe piene di vino, ridendo sguaiatamente, per recarsi poi nelle osterie o in bordelli improvvisati.


Si può immaginare quel che toccasse alle donne, monache comprese e le violenze carnali anche di gruppo si contarono a centinaia.

Il bottino che fecero fu incalcolabile: gioielli, monete d’oro, drappi preziosi, oggetti di culto di gran pregio, ma per fortuna reputarono di nessun valore i quadri e le opere d’arte, così che molte di queste furono fortunatamente risparmiate per le future generazioni.


I ricchi venivano usati come schiavi e adibiti alle più basse fatiche domestiche, compresa la pulitura dei cavalli e la vuotatura delle loro feci.

Il Principe d’Orange, succeduto al Borbone, dopo tre giorni ordinò di cessare il saccheggio ma ormai nulla e nessuno poteva fermare quel branco di scellerati.

Osservando l’immane catastrofe della città, il Pontefice prigioniero nella fortezza, per aver salva la vita fu costretto a subire la resa ed il 5 giugno 1527 accettò le pesanti condizioni richieste, quali l’abbandono delle fortezze di Ostia, Civitavecchia, Civita Castellana e la consegna delle città di Modena, Parma e Piacenza, oltre al pagamento di 400.000 ducati e l’obbligo di rimanere a Castel Sant’Angelo come prigioniero.


Ma per la città di Roma la resa del Papa non significò affatto la fine del saccheggio e l’allontanamento dei predoni, che continuarono a rimanere in città a rapinare ed uccidere coloro che tentavano di ostacolarli.


La liberazione di Roma da questa ignobile soldataglia giunse soltanto grazie ad un nemico ancora peggiore: la peste.

Scoppiata nell’afosa estate del 1527, percorse la Penisola da Nord a Sud e giunta a Roma fece strage, non solo fra la popolazione ma anche fra i lanzichenecchi ancora presenti in città e costringendo quelli ancora non colpiti dal morbo a fuggire in gran quantità. Però solo il 17 febbraio 1528 le ultime truppe imperiali lasciarono definitivamente la città ormai ridotta in uno stato pietoso e pressoché distrutta.


Il Papa che nel dicembre 1527, corrompendo ufficiali imperiali, era riuscito a lasciare Castel Sant’Angelo raggiungendo con difficoltà Orvieto, solo il 6 ottobre 1528 rientrava in una Roma distrutta, priva dell’80% dei suoi abitanti originari, spogliata di tutto ed in preda alle malattie ed alla fame.

Le vittime, secondo la maggior parte degli storici, superarono le 20.000 unità solo tra gli abitanti romani ed a queste vanno aggiunte quelle dei soldati imperiali, (oltre 5.000) morti per lo più a causa della peste.


Con il Sacco di Roma finì la stagione del Papato - Impero e del Papa – Imperatore e finì anche la stagione artistica e culturale del primo Cinquecento.


Anche se Roma in soli dieci anni riuscì a rifiorire completamente, ci volle più tempo perché le ferite spirituali si rimarginassero. Nel frattempo il mondo era cambiato notevolmente: l’unità della cristianità definitivamente spezzata, il potere saldamente nelle mani di Carlo V° e dei suoi successori.

Lanzichenecchi

 

 

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