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				  Titolo, Periodico) ." UMBERTO II, IL RE CATTOLICO   
                  
                    |  |    Quando Re Umberto II salutò  con il dorso della mano sinistra, prima che il portellone dell’aereo si  chiudesse, il sorriso ampio, stampato in volto, non sembrava forzato.  La foto storica, ovunque presentata, inganna il  tumulto di quell’uomo completamente solo. Abito grigio, orologio al  polso, la vera al dito e cappello nella mano destra. Era un Re che se ne  andava, con la discrezione e la dignità che sempre lo contraddistinsero, dal  suolo italiano per non farvi mai più ritorno.
 Era giovedì 13 giugno 1946.
 Ore 16.07.
 Mentre si dirigeva verso  l’aereo un vice brigadiere dei carabinieri lo aveva salutato e lui si era  fermato a stringergli la mano. "Vi aspettiamo sempre, Maestà!", aveva detto il  giovane con accento napoletano. Falcone Lucifero, ministro della real Casa dal  giugno 1944, avvicinò il carabiniere e gli disse di passare l’indomani perché  gli avrebbe consegnato un piccolo ricordo da parte del Re.
 La commozione dei presenti  era indicibile. Umberto II salì la scaletta del velivolo e si attardò un po’  nel salutare il gruppo di persone convenute a Ciampino per dargli l’addio.
 Dalla torre del Quirinale  un graduato aveva sorvegliato con il binocolo la zona dell’aeroporto, per  togliere la bandiera con lo scudo sabaudo nel momento in cui il quadrimotore si  levava in volo. Prima dell’addio all’Italia, Umberto aveva provveduto, a coloro  che gli erano stati accanto in quelle ultime ore, a distribuire decorazioni e  titoli nobiliari. Aristocratici dell’ultima ora che saranno chiamati "conti di  Ciampino".
 Poi l’aereo si mise in moto  e alle 16,10 decollò. Fazzoletti bianchi a terra ondeggiavano. Qualcuno pianse.
 Ben altro futuro si  prospettava per l’erede al trono di Casa Savoia quando cento e uno salve di  artiglieria, nel secolare parco del castello di Racconigi, salutarono il  Principe nel giorno della sua nascita, il 15 settembre 1904. Alle ore 23 il  dottor Morisani aveva annunciato a Vittorio Emanuele III: "Maestà, è nato un  Principe di Casa Savoia!", il Re era impallidito e aveva sorriso. "Il mio animo  si allieta in modo particolare per la speranza che il neonato possa col tempo  servire al bene e alla grandezza della Patria" scriverà più tardi al sindaco di  Roma. Poi telegrafa al Primo Ministro Giovanni Giolitti per comunicargli che ha  deciso di destinare un milione di lire agli operai anziani e malati.
 Il Re soldato era  affiancato da una consorte propensa non ai salotti culturali e politici come la  regina delle perle, sua madre, ma a stare a contatto diretto con il popolo e in  particolare alle persone più umili e bisognose, con la sua carica di generosità  tutta cattolica per cui approderà alla "Rosa d’oro della Cristianità" che Pio  XI le consegnerà il 7 marzo del 1937 a riconoscimento del suo costante impegno  nella carità. Elena (Cettigne, Montenegro, 8 gennaio 1873 – Montpellier,  Francia, 28 novembre 1952)  era così,  toglieva a sé e ai suoi figli per dare agli altri. Nel 2001, in occasione  dell’apertura dei festeggiamenti per il 50° anniversario della sua morte, il  vescovo di Montpellier ha avviato la fase diocesana del suo processo di  canonizzazione.
 Quando nacque l’erede al trono le agitazioni  degli scioperanti erano all’ordine del giorno: Milano, Genova, Torino, Bologna,  Roma, Napoli, Venezia, Firenze, Verona, Brescia… Furono invase le tipografie  dei giornali indipendenti, il lavoro impedito, i tranvieri fermati, come pure  gli spazzini. Vennero arrestate le carrozze, i vetturini di piazza ingiuriati e  bastonati, minacciata la chiusura dei forni, strappate le insegne dai pubblici  esercizi, fatti chiudere i caffè, bastonati i frequentatori e ucciso, per non  aver lasciato la sua birra sul banco, un avventore della birreria Casanova di  piazza del Duomo a Milano, il dottor Giovanni Cadola.
 Scriverà il giornale la Tribuna: "L’annunzio del Principe nato…  diffonde un senso di sicurezza nel popolo d’Italia, il quale considera di lieto  auspicio che il suo quarto Re derivi da Elena e Vittorio. Abbia di Elena la  virtù dolce e severa, di Vittorio la volontà ferma, il sapere ampio, la  percezione dell’onore che gli spetta, e della forza che gli deriva dal  consentimento della popolazione".
 Era stato tanto atteso  l’erede di Casa Savoia. Dopo cinque anni di matrimonio il 1° giugno del 1901,  l’anno seguente l’omicidio di Re Umberto I per mano di Gaetano Bresci (29  agosto 1900), era nata Jolanda. Il 19 novembre 1902 Mafalda, un’altra femmina e  questa volta Elena piange, mentre Elena d’Aosta, il ramo Savoia rivale dei  Carignano, si compiace e continua a chiamare il figlio Amedeo "mon petit roi".
 In questo clima  pessimistico, sul quale rimarcava l’eco della regina Margherita, ma anche  l’attesa degli Aosta e del Vaticano (la Santa Sede temeva che con la nascita  dell’erede al trono si venisse a creare il titolo di Principe di Roma),  Vittorio Emanuele III esultò nell’inviare un asciutto e impermeabile telegramma  alla madre: "Mamma, ho avuto un figlio. Si chiamerà Umberto".
 
 Cento e uno salve di  artiglieria, nel secolare parco del castello piemontese, mentre tutti, dai  genitori, alla madre regina, alla maggior parte degli italiani, tiravano un  respiro di sollievo. La gran paura, del passaggio di corona venne così fugata;  mai si sarebbe pensato che quel Principe sarebbe stato l’ultimo Re d’Italia e  allora, giù ai cancelli della residenza sabauda, la gente rumoreggiante  applaudiva alla fausta nascita: bambini, anziani, poveri, borghesi, benestanti,  curiosi, affezionati… Casa Savoia era salva. Il ramo sarà ancora Carignano.
 Anche la sapida Matilde  Serao si unisce al coro di entusiasmo, la quale sulle colonne del Mattino scrive: "Che chiederemo a Dio,  che chiederemo alla Provvidenza, per te, per adornare la tua vita?... È vero,  il mondo ha sete di pace, ma la pace non basta né all’uomo, né alla società,  perché l’anima umana si elevi e si esalti in volo d’aquila. O piccolo Principe,  il mondo ha sete di bene: il mondo ha orrore del male possa tu, o neonato di  Elena e di Vittorio, o futuro Re d’Italia, diventare forte, ma restare buono;  diventare un grande per te, per la tua nazione, per i tuoi tempi, ma restar  buono. Rimanga in te, Principe, l’orrore del male; rimanga in te la innata  invincibile incapacità del male: rimanga in te, o Re dei tempi novissimi, la  savia innocenza del fanciullo".
 Profetiche  parole quelle della giornalista Serao: rimase buono ed innocente, nonostante  gli orrori delle guerre e la solitudine privata della sua drammatica esistenza,  più votata alla meditazione, alla religiosità, alla mistica cattolica, che  all’azione terrena. Fin da giovanissimo manifestò un intimo fervore religioso,  incline alla riflessione e alla meditazione.
 La sua religiosità, dalla  quale il padre Vittorio Emanuele rimase sempre orgogliosamente distante, si  accrebbe di giorno in giorno.
 Tra festeggiamenti, luminarie,  omaggi popolari, donativi reali, Umberto (nonno paterno), Nicola (nonno  materno), Tommaso (lo zio, duca di Genova), Giovanni, Maria fu battezzato il 16  settembre sera nella cappella del castello dal cappellano di corte, monsignor  Biagio Balladore.
 L’atto di nascita fu  sottoscritto dal presidente del Senato Giuseppe Saracco e dal presidente del  Consiglio Giovanni Giolitti. Testimone d’eccezione: Costantino Nigra,  ambasciatore di Vittorio Emanuele II e segretario di Cavour. Con quest’ultimo  anche il presidente della Camera Giuseppe Biancheri. Per l’occasione vennero  assegnati tre collari dell’Annunziata, con i quali si diveniva cugini del Re: a  Giolitti, al senatore Giuseppe Ciano Gerbaix de Sonnaz e all’ambasciatore conte  Giuseppe Tornelli Brusati di Vergano.
 La cerimonia pubblica del  battesimo ebbe luogo invece al Quirinale di Roma e officiò monsignor Giuseppe  Beccaria. La Santa Sede era rappresentata da un solo sacerdote, don Ferrarini,  espressamente richiesto dal sovrano e giunto con licenza di san Pio X.
 
                  
                    |  | Umberto divenne Principe di  Piemonte e non certo di Roma, come avevano suggerito alcuni cortigiani non  troppo accorti e diplomatici: "Ma Vittorio Emanuele aveva troppo orrore della  retorica per indulgere a simili trovate scriteriate. Le sole cose a cui teneva,  con la discernenza assicurata, erano la buona salute del figlio e il proposito  di dargli un’educazione severa e senza debolezze, per crescerlo come era venuto  su lui" (1).L’infanzia di Umberto, gaia  e protetta dalla materna Elena, fu assai diversa da quella del padre che ebbe  scarsa attenzione da parte della regina Margherita, troppo occupata fra gli  intellettuali e la politica.
 Il calore e l’intimità  familiare non vennero a mancare ad Umberto. Non si trovò, infatti, a vivere in  una corte, un focolare domestico e mamma Elena era molto tenera con i figli e  per Umberto, che chiamava "Bepo", aveva un forte debole. Tuttavia il vento  iniziò a mutare quando si avviarono gli studi: il Re decise che occorreva  formare il figlio privatamente, senza contatti con i coetanei. L’educazione di  Umberto fu di stampo militare: disciplina, caserma, accademia, esercitazioni.
 In definitiva Vittorio  Emanuele adottò lo stesso criterio formativo che lui stesso aveva ricevuto:  così, mentre Elena si prendeva tenera cura del figlio, Vittorio lo teneva a  debita distanza e la pesante soggezione e la sudditanza che aveva creato fin  dal principio nei confronti del figlio permasero fino alla fine della sua  esistenza.
 
 |  Umberto doveva imparare il  mestiere di re, guardando il sovrano, ma diversi passi indietro: fuori dal  potere, fuori dalle faccende politiche: "in casa Savoia si regna uno alla  volta" era la legge di sempre della Casa sabauda."Qualcuno obiettava che si  correva il rischio di avere, venuto il momento, un Re sprovveduto, impreparato  alle difficoltà del compito, esposto al rischio di fallire senza colpa.  Vittorio Emanuele rispondeva che non era questo il rischio vero. Il rischio  vero consisteva nel presentare un sovrano corresponsabile degli eventuali  errori del suo predecessore, mentre bisognava insediarlo svincolato da  qualsiasi tipo di passato…" (2).
 Ecco comparire sullo  scenario pedagogico l’ammiraglio Attilio Bonaldi. Uomo retto, onesto, ma  esigentissimo e investito di tutta la responsabilità del mandato ricevuto. Era  indubbio che dalla protezione e dalle coccole di mamma Elena, fra pic-nic,  rilassanti pescate con la madre, giochi nel parco di Villa Savoia, vacanze  trascorse a San Rossore, a Sant’Anna di Valdieri fra spiagge e monti, passare  di colpo nelle mani dell’ammiraglio Attilio Bonaldi fu per Umberto  un fatto traumatico. Dall’oggi al domani il  Principe di Piemonte, ragazzo allegro, socievole, libero, diligente e molto  sensibile, fu messo, per volere paterno, sotto la direzione dell’ammiraglio  Bonaldi, dal quale non era possibile scappare e lo iato fra Vittorio Emanuele  ed Umberto si ispessì tanto che il Principe prese sempre a chiamare il genitore  "il Re mio padre".
 Davvero diverso il figlio  da suo padre: amava gli sport, il ballo, le conversazioni, era disinvolto e agile  nel destreggiarsi fra i salotti. Tutto l’opposto di Vittorio Emanuele che non  riuscì mai ad avere un rapporto disteso con Umberto, oltretutto c’era  quell’"ingombrante" bellezza a dividerli.
 Pur non condividendo i  repressivi metodi dell’ammiraglio, Umberto, dall’età di nove anni, fu costretto  a seguire impostazione ed insegnamenti fino a che il suo temperamento venne  piegato: lo spontaneismo fu sostituito da un ferreo autocontrollo che divenne  il filo conduttore  di tutta la sua  esistenza. La spensieratezza la lasciò nei suoi ricordi.
 Al funerale di Attilio  Bonaldi, Umberto non vi andrà. Una scelta più che eloquente, ma anche un  segnale importante della sua personalità: non fu mai ipocrita, neppure per  interesse dell’immagine pubblica, e dissimulatore non riuscirà neppure ad  esserlo nella vita coniugale. Tutti sapranno del suo scarso interesse affettivo  per Maria José (4 agosto 1906–27 gennaio 2001).
 A 14 anni venne iscritto al  Collegio militare di Roma, con sede a Palazzo Salviati, alla Lungara, dove  rimarrà fino a 17 anni, quando presenterà  domanda di arruolamento volontario nell’esercito, al primo reggimento  granatieri. Si appassionò allo studio, in particolare gli piaceva  l’archeologia, meno la narrativa e la poesia, benché provò molta simpatia per Gabriele  D’Annunzio, forse più per le sue imprese che per la sua produzione letteraria.
 Quando ebbe compiuti i  vent’anni, il compito del governatore Bonaldi terminò e per mettere la parola  fine,  Principe ed Ammiraglio  attraversarono insieme l’Atlantico sulla nave San Giorgio, scortata dalla San  Marco. Vennero visitatI Argentina, Cile e Brasile.
 Umberto conosceva quattro  lingue e ciò lo favoriva nelle relazioni internazionali. Tutti sembravano  soddisfatti del Principe di Piemonte: popolo, militari, nobili, notabili… era  simpatico e accattivante.
 Nel 1925 il Principe superò  gli esami all’Accademia di Modena e divenne tenente in servizio permanente  effettivo al 91° reggimento di fanteria di stanza a Torino. Indimenticabili per Umberto  saranno, dal 1924 al 1929, gli anni torinesi. Torino, l’ex gloriosa capitale  d’Italia, è la nuova destinazione, ideale per il Principe di Piemonte e la sua  dimora è Palazzo reale. Quattro anni per Umberto indimenticabili. Lontano dal  padre si sentiva a proprio agio: il rigore e la disciplina militari non gli  pesavano e la sera poteva dedicarsi ai suoi amici.
 In Italia la situazione è  esplosiva sia da un punto di vista sociale che politico. All’inizio degli anni  Venti, il movimento operaio, a lungo soffocato dall’esperienza bellica della  prima guerra mondiale, diventa il protagonista di un’impetuosa avanzata  politica, tanto brusca e inattesa da assumere i connotati di una vera e propria  rivoluzione. I partiti socialisti di tutta Europa sono a capo di tale fermento,  coadiuvati dalle sempre più influenti organizzazioni sindacali. Le richieste  vertono sulla riduzione dell’orario di lavoro, sulla sicurezza nelle fabbriche  e nei cantieri, sulle forme assicurative per donne, bambini e ragazzi.
 Le otto ore di lavoro  giornaliere a parità di salario sono la bandiera di una lotta che va  dall’Italia all’Austria, dalla Francia alla Germania, ispirandosi  all’esperienza sovietica.
 In Italia è evidente la  debolezza della democrazia e degli uomini del Parlamento. La guerra ha fiaccato  tutti e tutto. I movimenti cattolici si sono riuniti in una coalizione (il  Partito popolare)  già dal 1919, mentre  la sinistra non riesce a organizzare le varie correnti rivoluzionarie, pagando  questa frammentazione in termini di perdita di potere politico.
 Si fa perciò  strada il movimento che offre maggiori garanzie di rigore e di solidità, quello  fondato nel 1919 da Benito Mussolini, che coniuga istanze socialiste e  aspirazioni nazionalistiche. Cavalcando lo scontento popolare per la conferenza  di pace di Versailles, colpevole di non aver riconosciuto all’Italia il suo  ruolo di potenza vincitrice, il fascismo attacca il governo, esprimendo il suo  appoggio a clamorosi atti di protesta, quale l’occupazione della città istriana  di Fiume da parte dei volontari guidati dal poeta D’Annunzio. Il ritorno al  governo di Giovanni Giolitti, nel 1922, provoca l’aperta rivolta dei fascisti,  che ne approfittano per imprimere al loro movimento una svolta di chiara  matrice antisocialista.
 Forte dell’appoggio dei  vertici militari e di larga parte del Parlamento, il 28 ottobre del 1922 il  fascismo organizza la "marcia su Roma". Fallito il tentativo di fare  dell’Italia uno Stato liberale e democratico, il Paese assiste, comunque, ad un  forte ammodernamento del suo sviluppo industriale urbano. Le nuove case, sia  dei ricchi borghesi come quelle degli operai, vengono edificate con il  riscaldamento, acqua corrente ed elettricità e i nuovi quartieri sono costruiti  lontano dalle fabbriche e dal centro. Si crea una fitta rete di trasporti  urbani, gestita dall’amministrazione cittadina.
 Nuovi gli accessori degli  interni delle dimore che, dalla cucina alla stanza da bagno, irrompono nella  vita quotidiana dell’uomo degli anni Trenta. Si diffonde l’automobile, chiaro  segnale del rivoluzionario modo di fruire della vita moderna; vengono  progettate e messe in commercio utilitarie con un prezzo accessibile ad una  larga fascia sociale. Seguendo i precetti economico – produttivi già collaudati  negli  Stati Uniti dalla Ford per il  modello T, ecco uscire dalle fabbriche tedesche la Volkswagen (macchina del popolo), mentre in Italia la Fiat propone  con successo la Topolino.
 Beni di lusso come il  frigorifero e lo scaldabagno rimangono appannaggio delle classi agiate, ma  fanno già la loro comparsa cucine a gas, ferri da stiro elettrici e il mezzo  che porta nelle famiglie informazione, cultura e musica: la radio.
 
 Umberto doveva essere  un testimone muto, come lo era stato durante la prima guerra mondiale, che  aveva  mutato la sua quotidianità di  undicenne, quando il padre lo portava con sé al fronte. Ci sono gli album  fotografici che raccontano di Umberto, il quale, dopo lunghi viaggi in treno  per arrivare a Udine e a Padova, saliva sull’auto scoperta accanto al Re e agli  ufficiali di servizio.
 L’erede doveva essere  cosciente di ciò che accadeva in patria, in quella patria dove un giorno  avrebbe regnato e la guerra, il volto più duro della storia di una nazione, gli  doveva essere presentata in diretta con i suoi protagonisti. Quelle fotografie  circolavano fra gli italiani e vedere il Principe Umberto prendere il treno e  raggiungere i punti nevralgici del tragico conflitto dove perivano i figli, i  fidanzati, i mariti, i padri esaltava la simpatia per Casa Savoia.
 Fu in quelle occasioni che  ebbe modo di conoscere Ugo Ojetti, Luigi Alberini, Luigi Barzini, Leonida  Bissolati, Arturo Toscanini, Gabriele D’Annunzio… ma anche grandi eroi come  Francesco Baracca, asso dell’aviazione (colui che per simbolo aveva il cavallo  rampante che sarà ripreso da Enzo Ferrari), Fulco Ruffo di Calabria, il  generale Elia Passavanti.
 Il matrimonio fra Umberto e  Maria José del Belgio, fierissima dello spiccato socialismo dei suoi genitori,  fu combinato a tavolino. Ben altra impostazione ideologico-politica era quella  della famiglia Savoia, dove lo spettro socialista era sinonimo di rivoluzione,  disordine, caos, destabilizzazione. Due culture totalmente differenti e opposte  quella belga e quella italiana. Basti osservare le due regine: Elena, donna  dalla cultura tradizionale e cementata, Elisabetta del Belgio, modello  femminile moderno e mondano.Alla moda la regina Elena  dava per nulla importanza, di politica si interessava, ma non si intrometteva.  Ma quello che fece, non a tavolino, ma vestita in "borghese" (erano in tanti a  non riconoscerla)  durante il terremoto  di Messina del 1908, fra le corsie degli ospedali, nelle povere case, fra la  gente in strada…
 Non pensò mai alla  carnagione madreperlacea, né alle toilette, come la consuocera, ma plasmò figli  culturalmente preparati, umanamente sensibilissimi, pronti ad affrontare le  avversità più dure, grazie anche ad una fede cattolica alla quale si  aggrapperanno tenacemente, in particolare Umberto, che morirà in  esilio, Mafalda che verrà  assassinata nel lager di Buchenwald e la regina  Giovanna, terziaria francescana, che vorrà essere sepolta nel cappella dei  frati Minori Francescani del cimitero comunale di Assisi.
 Era il 1918 quando Maria  José incontrò, per la prima volta, Umberto di Savoia, il promesso sposo. I loro  destini erano stati programmati dalle cosiddette ragioni di Stato. Non sappiamo  perché Vittorio Emanuele III avesse puntato su una casa reale che aveva poco,  culturalmente e politicamente, da spartire con i Savoia. Certamente per i belgi  Umberto, futuro Re d’Italia, era un erede da non lasciarsi sfuggire.
 Al Poggio Imperiale si  presentò alla dodicenne Maria José il gentiluomo di corte, il conte Solaro del  Borgo, annunciando che il Re e la regina d’Italia la invitavano loro ospite a  Battaglia, nei pressi di Padova.
 La vita di corte aleggiava  nei ricordi, carichi di nostalgia per gli ambienti della vecchia aristocrazia  subalpina, antitetica alla nuova ambiziosa borghesia industriale. L’opacità che  pareva scesa su Torino con lo spostamento della capitale fu cancellata di  colpo. Si riaprì Palazzo reale e con esso la vita sociale. Umberto è davvero  diverso, la simpatia che suscita è calamitante e per Torino si rinnova il sogno  di una rinascita, di una nuova epoca di luce e di ribalta.
 L’11 novembre 1925 si  laurea a Padova in legge.
 È bellissimo, somiglia alla  mamma, gli occhi scuri e profondi, lo stesso ovale del viso, l’alta statura,  l’eleganza nel muoversi e la gentilezza istintiva sono tipiche di Elena. Ma  traspare anche la sensibilità d’animo e la finezza dell’intelligenza del tratto  materno. Anche lo spirito riflessivo e il suo forte sentire cattolico lo  accomunano a lei.
 Torino risorge con Umberto, arbiter elegantiarum. Città avvezza  alla chiusura, vive di ricordi risorgimentali e si sente frustrata, pensando di  aver pagato un prezzo troppo alto per un’Italia più unita sulla carta che di  fatto. Se in caserma il Principe è pedestre e pignolo, fuori si trasforma: apre  i saloni, offre ricevimenti, partecipa alle feste, suona il pianoforte, ama la  buona tavola, veste non solo elegantemente, ma è lui a creare uno stile di moda  ed offre agli amici più stretti una "U" di brillanti da porre all’occhiello.
 È sportivo: partecipa alle  cacce, gioca a tennis e scia. Le sue fotografie   con racchette e sci compaiono su tutti i giornali. Località di montagna,  come Bardonecchia, Sestrière, Salice d’Ulzio, San Sicario, Clavière… all’epoca  conosciute soltanto dagli appassionati di montagna, ora diventano stazioni  sciistiche mondane e i ricchi si adoperano a costruirvi le loro ville.
 Intorno alla sua persona  viene a costituirsi un gruppo di giovani rampolli della nobiltà e dell’alta  borghesia. Lo si vede un po’ ovunque, inaspettatamente. Le sue improvvisate  arrivano nelle Langhe, nel Monferrato, in Valle d’Aosta ed è sempre  accompagnato da una coda di automobili di amici ed amiche, che godono l’onore  di essere ammessi nella cerchia eletta. Le ragazze si innamorano di lui a tal  punto che molte finiranno per non sposarsi. Altre cadono ai suoi piedi.
 Ecco il Principe ambito e  chiamato "Prince charmant", avanzare  fra uno stuolo di persone che brama la sua compagnia, il suo sorriso, la sua  benevolenza. E la fama varca i confini nazionali. Le attrici straniere del  cinema e del varietà affermano di essere mosse dal desiderio di conoscere  Umberto. L’hollywoodiana Dolores Del Rio durante una tournée in Europa annuncia  di voler venire in Italia per conoscere "il più bel Principe del mondo".
 Il sogno di Umberto, che  gode la sua libertà lontano dall’opprimente Roma, durerà una manciata di anni.  Vittorio Emanuele III è furibondo nei confronti del figlio.
 Maria José vorrebbe  sposarsi presto, mentre Umberto non vuole proprio saperne. Lei non si è accorta  ancora delle  distanze culturali e caratteriali che li separano. Lui sì.
 La morte della regina Margherita  viene incontro ai desideri di Umberto di procrastinare le nozze. La famiglia  Savoia si raccoglie in gramaglie a Bordighera intorno alla salma di chi aveva  contribuito ad unire lo spirito nazionale. Il re, in abiti civili, porta  all’occhiello il bottone nero e ha previsto sei mesi di lutto stretto.
 
 Umberto fa ritorno  nell’amata Torino e, promosso capitano, è assegnato al 92° Fanteria di stanza  in città. Frequenta i salotti e i teatri della città, dove incontra la subrette Milly, la quale racconterà al  giornalista Lucio Lami:
 "Umberto e io eravamo  grandi amici e null’altro. C’era tra noi una specie di patto non detto: io lo  tenevo allegro, gli raccontavo i pettegolezzi sui suoi amici, fungevo da  partner piuttosto decorativa; lui, offrendomi la sua confidenza, mi procurava  una pubblicità che nessun agente al mondo avrebbe potuto offrirmi. Era galante,  intelligente, pieno di fantasia. Mi accoglieva abbracciandomi e baciandomi  sulle guance, non andò mai oltre. Ma si divertiva nel vedere il trambusto che la  nostra storia provocava. Adorava le feste, le combriccole di amici e ci teneva  che in quelle riunioni le donne fossero belle e di classe. No, non mi innamorai  di lui: capii subito dal suo modo di agire che la nostra era un’allegra  complicità nella quale non ci sarebbe stato posto per la passione. Però mi  affascinava: aveva lo stile inconfondibile del grande signore, colto, gentile,  pieno di buongusto" (3).
 Oltretutto Umberto è  credente e manifesta la sua religiosità, non fa nulla per celarla; la sua è  un’etica cristiana che lo fa soffrire quando trasgredisce e quando ciò accade:  "ne riceve choc tormentosi, tanto più se capisce di non potersi sottrarre  all’errore" (4).  Peccato ed espiazione gli sono sempre dinnanzi. In questa sua caratterizzazione  ricorda moltissimo il suo antenato Carlo Alberto, che aveva terminato i suoi  giorni in esilio, ad Oporto, in Portogallo, nello stesso Stato che Umberto  sceglierà per vivere il suo isolamento, la sua prigionia.
 Significativa la sua messa,  assolutamente solitaria, alle sette di mattina della domenica nella cappella  del Cottolengo, ma altrettanto importanti, per comprendere il valore della sua  cristianità, le sue genuflessioni, rigorosamente compiute di fronte al  cardinale di Torino Maurilio Fossati, ed il rispetto per ogni ricorrenza  religiosa. Per non parlare dei suoi serissimi pellegrinaggi, in qualità di  penitente a Santiago di Compostela, a Nazaret, a Betlemme…  indossava anche il saio durante le  processioni religiose. Non erano manifestazioni ad uso politico, era il suo modo  d’essere, il suo mistico sentire.
 Il sipario su Torino sta  per calare, Maria José è nuovamente in Italia per le nozze di Amedeo delle  Puglie – poi duca d’Aosta, eroe dell’Africa Orientale – con Anna d’Orléans. Il  rito è celebrato a Napoli. Umberto con la sinistra regge il berretto gallonato  e la sciabola, con la destra tiene il braccio della Principessa belga.Il Principe ha fretta di  ritornare nella sua bella Torino, città che gli somiglia molto: raffinata,  nostalgica, garbata, sabauda nell’anima. È promosso maggiore e nel gennaio 1928  si mette in viaggio. Le sue mete sono l’Egitto, la Siria, il Mar Rosso, l’Oceano  Indiano, l’Eritrea, la Somalia.
 Tornato dai suoi viaggi  Umberto è chiamato a celebrare Casa Savoia e a consolidare il legame con le  forze armate con un sorprendente carosello storico-mlitare. Se ne era svolto  uno già due anni prima a Pinerolo per il centenario della Scuola di Cavalleria.  Ora il luogo della spettacolare manifestazione è lo stadio di Torino. Si  festeggia una duplice ricorrenza: il decennale della vittoria del 1918 e il  quarto centenario del duca Emanuele Filiberto "restauratore dello Stato". La  tradizione medioevale dei caroselli comprende sfilate a cavallo, giochi  equestri, rifacimenti di storiche singolar tenzoni in costumi d’epoca.
 È il 6 maggio, lo stadio è  affollatissimo, lo occupano centomila persone, ma altre restano fuori dai  cancelli per mancanza di posto. Sono presenti Vittorio Emanuele, la regina  Elena e i rappresentanti di molti Stati. I figuranti sono 1200, di cui 700 a cavallo.  Alla straordinaria esibizione partecipano, in qualità di attori, sette principi  ed Umberto è la stella che brilla nel firmamento. Cavalca un cavallo nero,  veste i panni di Emanuele Filiberto, con cappello a pennacchio, giustacuore,  calzamaglia e sella cinquecentesca. La bellissima sorella Jolanda, monta,  invece, un cavallo bianco, indossa gli abiti di Margherita di Francia (5).
 È la più importante e  imponente celebrazione storica di Casa Savoia mai realizzata. Umberto trionfa e  con lui la corona sabauda. Cambiano continuamente i quadri di scena. Le  quadriglie di nobili e i plotoni di cavalleria nelle uniformi storiche  rievocano le gloriose vittorie della Casa: Ingolstadt (1546), San Quintino  (1557), Lepanto (1570), Staffarda (1690), Torino (1706) e via via fino a quelle  risorgimentali in uno sventolio di bandiere e di stendardi, in un tripudio di  motti e di orifiamme.
 Umberto, perfetto  condottiero, vive e assapora il suo momento magico, una simbolica  incoronazione: la sua ermetica gloria.
 
 Una sera, mentre il  Principe è a cena, a casa di amici, arriva una telefonata. È Vittorio Emanuele.  Siamo arrivati all’ultimatum, il tempo è scaduto: devono essere fissate le  nozze dell’erede. Umberto torna a tavola pallidissimo, i suoi occhi sono  velati.
 Quell’unione non prometteva  nulla di buono. Eppure né Vittorio Emanuele, né la regina Elena si erano  ricordati dell’antico ammonimento della regina Margherita: "Le Orléans portano  male. Le belghe pure. Le austriache non sono opportune, di sassoni non ce ne  sono e le altre non sono cattoliche".
 Il 25 ottobre 1929 Umberto,  il giorno dopo l’annuncio ufficiale del fidanzamento, si reca con Maria José in  corteo a rendere omaggio alla tomba del Milite Ignoto a Bruxelles. Ma là, ad  attenderlo, c’è Fernando De Rosa con una pistola  pronta per sparargli. Il ventunenne Fernando  De Rosa, socialista italiano, era un fuoriuscito arrivato dalla Francia e al  processo venne difeso dall’avvocato Paul Henri Spaak, futuro presidente del  Consiglio belga. L’attentato era diretto al cuore della monarchia, accusata di  essersi compromessa con il regime fascista.
 Il contegno del Principe  ammirò tutti: continuò ad elargire sorrisi e a salutare, come se non si fosse  accorto di nulla. Dimostrò coraggio  e  impavidamente proseguì nel suo dovere. Aveva fatto suo l’insegnamento di suo  nonno, Umberto I: gli attentati fanno parte degli incerti del mestiere di un  sovrano.
 Le nozze si celebrarono l’8  gennaio 1930: venne scelta questa data perché ricorreva il compleanno della regina  Elena ed Umberto era legato a lei da un affetto infinito. La cerimonia si  svolse nella cappella Paolina del Quirinale alla presenza del cardinale Aurelio  Maffi, arcivescovo di Pisa, poi insignito del collare dell’Annunziata.  Testimoni per Umberto furono il duca Emanuele Filiberto d’Aosta e il conte  Vittorio Emanuele di Torino e per Maria José i suoi fratelli. Notaio della  Corona Benito Mussolini, il quale sottoscrisse l’atto nuziale. Luigi Federzoni,  presidente del Senato, fu l’ufficiale di Stato Civile.
 La cerimonia venne a pesare  sulle casse del Re per cinque milioni di lire. L’abito della sposa l’aveva  disegnato Umberto, esperto in eleganza: un abito bianco di felpa di velluto a  riflessi d’argento, ornato di ermellino, con un pesante mantello, ricamato in  oro, lungo cinque metri che pesava moltissimo sulle spalle benché sostenuto da  quattro gentiluomini di corte. Venne confezionato in Italia, dalla sartoria  Ventura. Il velo, invece, proveniva dal Belgio, dono delle merlettaie di  Bruges. Al momento dello scambio degli anelli dalla piazza del Quirinale furono  lasciate libere nel cielo centinaia di colombe bianche.Strano viaggio di nozze fu  quello fra Umberto e Maria José, preceduto da una girandola di  ricevimenti, di sfilate, di omaggi, di doni, spettacoli, caroselli, cortei,  luminarie, feste popolari. Poi, l’amata Courmayer di Umberto, meta delle sue  giornate sciistiche quando si fermava nella villa di Enrico Marone Cinzano.  Appena arrivati telefonò alla sua compagnia torinese di giovani, invitandoli a  raggiungerlo lassù. La brigata non aspettava altro e molte auto si misero in  marcia per raggiungere Courmayeur. Occuparono un intero albergo.
 Nella chiesa di Courmayeur  troviamo una targa ricordo: "Qui pregarono le LL.AA.RR. i principi Umberto e  Maria José di Savoia il 19 e il 26 gennaio 1930".
 Tornati dall’infelice  viaggio di nozze, la Principessa trascorse i primi tempi della sua nuova vita a  Torino. Umberto era diventato colonnello e comandava il 92° reggimento di  fanteria. Mentre Umberto cercava di  capire, di orientarsi, senza la possibilità però di intervenire in alcun modo,  sua moglie si  adoperò, contro il volere  di Vittorio Emanuele, per creare una rete di informatori e di personaggi con i  quali discutere sul futuro della Corona e dell’Italia.
 Sulla scrivania del duce  piovono continuamente rapporti dell’Ovra a proposito degli spostamenti del  Principe: tutto quello che faceva o diceva era tenuto sotto controllo. Nacquero  così calunnie e pettegolezzi infamanti sull’erede al trono. Quanto poi alle  idee politiche di Umberto, nonostante la sua totale estraneità alle decisioni  della Corona, gli informatori dell’Ovra mandavano a Roma notizie assai  inquietanti: "Il Principe non si è detto contrario al regime fascista, ma è  perplesso perché sente che suo padre è stato messo in disparte", oppure:  "Umberto ha dichiarato apertamente che il fascismo blocca iniziative culturali  di tendenza diversa da quella dettata da Mussolini" e ancora: "Parlando con  Morozzo della Rocca, il Principe ha dichiarato di non essere favorevole alla  Milizia. Sarebbe opportuno informare della cosa direttamente il duce…".
 Umberto è spiato fin dai  tempi torinesi, ma il suo equilibrio, il suo perenne selfcontroll gli permettono di contenere l’amaro. Continua a  mantenere il suo sorriso e i suoi limpidi occhi: sarà sempre così, molto bravo  a nascondere preoccupazioni, turbamenti, ansie, inquietudini.
 Il fatto che all’erede al  trono venisse riservato lo stesso trattamento che si usava per i sospettati di  antifascismo la dice lunga sull’opinione che Mussolini si era formato sul giovane  Savoia fin dal trasferimento di questi a Torino.
 
 Siamo oramai nel settembre  del 1943. "Se ci prendono ci tagliano la testa a tutti…", continuava a ripetere  Badoglio passandosi le mani sulla gola (6), terrorizzato di essere  preso dai nazisti, senza minimamente preoccuparsi delle teste degli italiani.  Resterà "sempre un mistero come mai il re, Umberto e Maria José, pur su  posizioni differenti, abbiano tutti favorito, in quel momento critico,  l’avvento di Badoglio, del quale si conoscevano la grettezza, l’avidità senza  limiti, l’ambizione sfrenata, il nepotismo, il carattere vendicativo, le  modeste doti umane" (7).  Oltre che, come affermava lo stesso Vittorio Emanuele III, "il cervello  intorpidito dall’età". Umberto è contrario a  lasciare Roma per raggiungere il Sud con il padre e la madre. Vorrebbe tornare  indietro. Dice: "La mia partenza da Roma… è senza dubbio uno sbaglio. Penso che  sarebbe opportuno che io tornassi indietro; la presenza nella capitale di un  membro della mia Casa in momenti così gravi, la reputo indispensabile".
 Il Quirinale, per volontà  di Re Umberto, viene aperto ai mutilatini e spalanca i giardini della reggia  perché giochino con i suoi figli. Allo stesso modo i saloni del palazzo si  aprono per offrire i pranzi ai bambini degli orfanotrofi. Dalla mamma aveva  ereditato l’amore per i bambini; ogni istante libero dai suoi doveri  istituzionali era per i bambini: organizzava assistenza, cure, educazione,  istruzione. Per loro occorreva, secondo il pensiero del re, lavorare ed essere  uniti, oltre ogni idea politica. "Lo stesso cuore, la stessa bontà di sua  madre" si diceva.
 
 Nel Paese sconfitto e  affamato, spogliato delle colonie, minacciato al confine orientale dalle truppe  del maresciallo Tito, occupato militarmente dagli angloamericani imperversavano  bande di criminali e borsari neri; da qui violenze e omicidi, banche rapinate,  treni assaltati. Viaggiare era davvero un’avventura. Occorrevano venti ore di  treno per andare da Milano a Roma. Al sud banditismo e mafia agivano  profondamente.Dalle vie di Roma, come  dalla maggior parte delle principali città italiane, spariscono i gatti perché  finiscono nelle padelle della popolazione ed il pane è fatto con la polvere di  marmo.
 Nel giugno del 1944, dopo  la liberazione di Roma, Vittorio Emanuele III nominò il figlio Luogotenente  Generale del Regno in base agli accordi tra le varie forze politiche che  formavano il Comitato di Liberazione Nazionale, che prevedevano di "congelare" la  questione istituzionale fino al termine del conflitto.
 Umberto, dunque, esercitò  di fatto le prerogative del sovrano senza tuttavia possedere la dignità di re,  che rimase a Vittorio Emanuele III, restato a Salerno. In realtà si  trattava di un compromesso suggerito dall'ex presidente della Camera Enrico De  Nicola, poiché i capi dei partiti antifascisti avrebbero preferito  l'abdicazione di Vittorio Emanuele III, la rinuncia al trono da parte di  Umberto e la nomina immediata di un reggente civile. Il Luogotenente si  guadagnò ben presto la fiducia degli Alleati grazie alla scelta di mantenere la  monarchia italiana su posizioni filooccidentali.
 Umberto firmò su pressione  americana il decreto legislativo luogotenenziale 151/1944, che stabiliva che  "dopo la liberazione del territorio nazionale le forme istituzionali" sarebbero  state "scelte dal popolo italiano, che a tal fine" avrebbe eletto "a suffragio  universale, diretto e segreto, un'Assemblea Costituente per deliberare la nuova  costituzione dello Stato" dando per la prima volta il voto alle donne.
 Il luogotenente ora vive in  un appartamento del Quirinale, mentre Vittorio Emanuele si trova a villa Maria  Pia a Posillipo.
 Le giornate di Umberto sono nutrite di mille e mille impegni.  Si alza poco dopo le 7, riceve militari, nobili fedeli a Casa Savoia, uomini  politici, funzionari dello Stato, reduci, mutilati, vedove di guerra,  religiosi, studenti e partigiani. Raggiunge i fronti del Corpo italiano di  liberazione (60 mila uomini), del quale aveva chiesto invano il comando. Visita  gli Stati Maggiori, le truppe. Ma non basta, raggiunge paesi, città, piazze per  incontrare di persona la gente.
 Due o tre volte al mese, approfittando delle  ispezioni al Sud, raggiungeva in aereo Napoli, dove andava a fare visita  all’anziana duchessa d’Aosta, poi si recava a salutare i genitori: "Solitamente  pranzava con loro e ripartiva subito dopo, visto che quelle visite lo  opprimevano" (8).
 Soccorre le famiglie  diseredate a causa della guerra e continua ad essere vicinissimo ai soldati. Ma  il suo animo è ormai bruciato ed una cortina grigia gli copre la mente,  nonostante cerchi di essere sorridente:
 
 "Mi accorgevo che col  crescere della lotta politica crescevano anche le posizioni fideistiche.  Insomma si tornava indietro al “credere” cieco che ci eravamo lasciati alle  spalle. Ricordo di aver fatto questa amara riflessione in occasione di una mia  sosta a Poggibonsi. Il comando era sistemato in un palazzo sulla piazza. La  campagna politica infuriava, dalle finestre aperte entrava la voce degli  altoparlanti […]
 Erano giorni in cui sentivo il peso della storia. Ricordo  soprattutto il mio volo del primo maggio 1945: decollai da Villafranca, presso  Verona, con alcuni ufficiali americani, per una ricognizione. La linea tra zone  liberate e territori ancora in mano ai tedeschi si faceva sempre più fluida.  Partimmo con un caccia P51 e sorvolammo molti centri della Lombardia, poi ci  abbassammo sulla Milano-Torino e notammo che i tedeschi in ritirata marciavano  ancora con grande ordine, tanto che una loro batteria ebbe il tempo di fermarsi  e di aprire il fuoco contro di noi. Riprendemmo quota per poi riabbassarci su  Milano. La zona di San Siro era bloccata da veicoli ma non si capiva di chi  fossero. Scendemmo sul centro e fummo sorpresi di vedere una folla immensa che  inondava le vie. Piazzale Loreto brulicava di gente. Chiesi agli ufficiali  americani se sapevano di cosa si trattasse, ma la cosa stupiva anche loro. Non  sapevano che Mussolini era già stato ucciso e che pendeva dal distributore di  quel piazzale" (9).
 A Milano Umberto era  guardato male e di fronte a villa Crespi, dove ricevette il questore Elia, il  generale Cadorna e il generale Utili, il partigiano Sandro Pertini sparò alcune  raffiche di protesta.
 
 Il 9 maggio 1946, ad appena  un mese dallo svolgimento del referendum istituzionale che doveva decidere tra  monarchia e repubblica, Vittorio Emanuele III abdicò e si trasferì in Egitto  con la regina Elena, assumendo il nome di Conte di Pollenzo. Gli esponenti dei  partiti di sinistra e i repubblicani denunceranno la violazione della tregua  istituzionale negoziata attraverso l'istituto della luogotenenza, che avrebbe  dovuto essere mantenuta fino alla risoluzione del nodo istituzionale (anche se  il presidente del consiglio Alcide De Gasperi cercò, di minimizzare parlando di  "fatto interno a casa Savoia"). La speranza di Casa Savoia era di far  recuperare consensi all'istituto monarchico con l'uscita definitiva di scena  del vecchio Re e grazie anche alla maggiore popolarità del nuovo sovrano  Umberto II. Non vennero effettuate cerimonie formali di successione, in quanto  lo stesso Statuto albertino prevedeva che all'abdicazione del sovrano seguisse  la successione come monarca del principe ereditario.
 La paura serpeggiava fra  gli uomini di Governo, sapevano che Umberto II avrebbe potuto reagire  duramente, sostenuto dalla fedeltà dell’Arma dei Carabinieri e da una buona  parte delle Forze armate. Sarebbe bastato un ordine di Umberto II per scatenare  una nuova guerra civile fra l’Italia del Nord repubblicana e l’Italia del Sud  monarchica, mentre le truppe di Tito premevano ai confini nordorientali e a  Napoli e a Taranto scoppiavano tumulti popolari sedati a raffiche di mitra con  la nuova polizia. A questo punto De Gasperi domanda ad Umberto di ritirarsi a  Castel Porziano. La sera del 12 il Re lascia il Quirinale, ma resta a Roma  andando a cena da un carissimo amico giornalista, Luigi Barzini, vicedirettore  de il Tempo, il quale lascerà questa  toccante testimonianza:
 "Era davvero il nostro re,  in un certo senso il primo vero Re d’Italia. Era l’uomo assolutamente privo di  faziosità che occorreva al Paese dopo tanti disastri di faziosi. Nessuno degli  uomini politici che l’hanno combattuto e calunniato con tanto accanimento e che  oggi ha la scena politica tutta per sé può essergli paragonato, senza fargli  grave torto"(10).
 
                  
                    |  | Senza seguire i dettami della  legalità si  stabilì che l’Italia  diventava repubblica (11): il 18 giugno 1946 venne  proclamata, con effetto retroattivo dal 2 giugno, mentre la monarchia era  decaduta il 13. Così per cinque giorni l’Italia non fu né monarchia, né  repubblica. Il solo caso al mondo di uno Stato sospeso fra due sistemi.
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                    | Le alternative del Re, che  si posero il 13 giugno 1946 di fronte alla complicatissima situazione erano, in  definitiva, quattro: 
                         1 - dichiarare il Governo  decaduto, costituirne uno nuovo: inchiesta msul Referendum e nuova  consultazione.2 - Non tener conto del colpo  di Stato del Governo e rimanere e aRoma fino al giudizio della Cassazione,  previsto per il 18 giugno.
 3 - Emanare un proclama  denunciando l’usurppazione e appellandosi al popolo.
 4 - Lasciare l’Italia alla luce  del sole, con gli onori di rito, senza abdicazione, nessun passaggio di poteri  e nessun proclama alla Nazione.
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                    | Ai molti pareri contrari,  fra i quali quelli che insistevano per la maniera forte, il Re rispose di non  assumersi la responsabilità di un’altra guerra civile, dopo la tragica stagione  vissuta dal Paese fra il 1943 e il 1945. Scelse, quindi, la quarta opzione,  rifiutando l’appoggio di tutti coloro (ed erano tanti) che l’avrebbero  sostenuto e anche l’aiuto del generale Anders e delle sue truppe polacche,Un regno, quello di Umberto  II, durato dal 9 maggio al 2 giugno, 23 giorni appena. Una repubblica, quella  italiana, nata dai brogli elettorali maturati in casa Togliatti (12).
 Ad Umberto II parve di  vivere una situazione irreale.
 Quando partì per il  Portogallo fra le mani aveva un vasetto di vetro, contenente terra italiana.  Dirà più tardi, ormai lontano dal cielo italiano, durante il pranzo offerto in  suo onore a Barcellona che fu costretto ad accettare per ragioni di educazione,  ma che avrebbe preferito di gran lunga rifiutare: "Certo, in quelle ore non  potevo essere brillante, da che – perché non dirlo? – durante quell’agitato  viaggio, per religioso ch’io sia, avevo invocato la morte".
 Era il 14 giugno 1946.  L’esilio durerà 37 anni.
 Quando giunse a Lisbona venne  accompagnato a Colares, nei pressi della città di Cintra, dove la duchessa di  Cadaval aveva messo a disposizione una sua proprietà. Là Umberto II trovò Maria  José ed i bambini.
 
 |  |  Un eremitico stile di vita  il suo, dove trovava spazio una profonda vita di fede, nella continua ricerca  della modestia, della preghiera, della mortificazione. Non si considerava un ex  Re d’Italia, si considerava un esiliato. Basti ricordare che, per non usare il  passaporto diplomatico rilasciatogli dal nipote Re del Belgio, viaggiava con un  passaporto da apolide con le conseguenze immaginabili: ad ogni frontiera veniva  invitato al posto di polizia per accertamenti. Non si apriva con nessuno,  anche con gli ufficiali che hanno vissuto con lui più di trent’anni di esilio.
 Incarnò il suo ruolo  secondo uno stile personale, improntato alla riservatezza, alla discrezione, a  un codice etico e religioso di insospettabile severità interiore. Decise di far  ritornare allo Stato italiano la parte a suo tempo trattenuta della collezione  di monete donata all’Italia da Vittorio Emanuele III all’Italia all’atto della  partenza per l’esilio e che è una delle collezioni più belle del mondo, oggi  conservata a Roma nel Museo delle Terme.
 Le persone a lui rimaste  fedeli continuavano a chiamarlo Re d’Italia ed Umberto si rifiutò sempre di  riconoscere la legittimità della repubblica, affermando: "non sono gli italiani  che mi hanno costretto all’esilio, ma alcune oligarchie di Partito che  mercanteggiarono la repubblica con lo straniero".
 Trentasette anni di  amarissimo esilio, in estrema solitudine.   Tuttavia, nonostante il peso di ansie e struggimenti, non si curvò e  continuò ad esser un uomo alto, distinto, la cui dignità traspariva da tutta la  sua figura. Confiderà Juan Carlos I di Spagna: "Lo zio Bepo, lui che aveva  perduto il trono, mi ha insegnato come si fa il re!".
 I suoi occhi erano pieni di  malinconia e in un Paese straniero si consumarono i giorni di un condannato  al  dolore. Fu una vera e propria  mortificazione continua, vissuta da un eremita   legato a Cristo, nel quale ripose tutta la sua tragedia di uomo  ripudiato dall’Italia e presto, dopo un solo anno, abbandonato anche dalla  moglie, che portò con sé Vittorio Emanuele (12 febbraio 1937) a Merlinge, nei  pressi di Ginevra.Con Umberto rimasero le tre figlie Maria Pia (24 settembre  1934), Maria Gabriella (24 febbraio 1940) e Maria Beatrice (2 febbraio 1943),  che presto diventeranno, a causa della loro vita sentimentale a volte  tumultuosa, oggetto di morbose attenzioni da parte della stampa popolare e  fonte di ulteriori dispiaceri per il padre.
 Umberto II non fece mai  pesare quella sua solitudine. Teneva tutto dentro, nel confino del suo spirito.  Il presidente Sandro Pertini gli fece sperare che un giorno sarebbe tornato in  Italia, e che sarebbe morto nel proprio Paese. Ma trascorso un po’ di tempo,  non ci credette più. La sua giornata si dipanava  più o meno nella ritualità. Si alzava alle 7 di mattina, un’ora dopo andava nel  suo studio, al secondo piano e lì leggeva giornali e posta. Poi la colazione:  caffè, latte, pane con burro e marmellata, succo di frutta.
 La memoria di Umberto era  formidabile. Ricordava nomi, luoghi con una facilità infinita. Lungimirante,  credeva nella prevenzione della guerra. Disse il 9 novembre 1963: "I cadetti di  oggi, nel prepararsi a divenire i generali di domani, devono intendere bene che  la missione odierna del soldato è quella di prevenire le guerre. La vera pace  può essere conquistata solo da uomini degni di questo nome. Non vi si misurerà  da come saprete morire ma da come saprete vivere".
 Antepose i suoi doveri  istituzionali a qualsiasi altra cosa. Sovrano di tutti gli italiani; proprio  per questo non prese mai posizioni politiche. Il giornalista Luigi Barzini  disse: "Non chiedeva mai cosa fosse vantaggioso per la causa monarchica, per la  Corona,  ma solo quale fosse il suo dovere di fronte alla legge, che  cosa fosse più utile per l’Italia".
 Fermezza e dignità fino in  fondo e fino alla fine.
 Da Cannes, dietro Mentone,  vedeva nelle giornate soleggiate e limpide le coste italiane e la nostalgia era  struggente. Non ebbe modo di sorvolare l’Italia neppure quando morì suo  padre.La passeggiata quotidiana,  realizzata anche con la pioggia, era sulla spiaggia che da Cascais conduce al  Guincho.
 
 
                  
                  
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                      Una volta confessò: "Sorge il mattino e mi sorprendo quasi sempre con  il pensiero all’Italia. Cala la notte, e prima di spegnere la luce e riposare  ho la visione della piazza del Quirinale, di Roma… la città che non si può non  amare". Temperatura permettendo, Umberto si tuffava nell’acqua dell’Atlantico,  vicino alla scogliera della Boca do  inferno, la bocca dell’inferno. Un richiamo sinistro e lugubre. D’altra  parte lo stesso Umberto II era uso dire che il luogo del suo esilio si trovava  alla fin do mundo.  Altre volte raggiungeva il centro del paese  di Cascais e lì  s’intratteneva con i  pescatori, l’edicolante, il gelataio italiano, Nello Santini che per Umberto II  preparava grandi sorbetti di crema e nocciola. Poi, quasi sempre, i ragazzini  gli correvano dietro e lo applaudivano dicendo: "O rey de Italia".I suoi pasti erano assai  frugali: una minestra, una fetta di carne o di formaggio, frutta fresca. Nel  pomeriggio si interessava degli studi delle figlie, studi privati. In seguito  si chiudeva nel suo studio, fra libri e monete. Dalle sei alle otto giungevano  i visitatori: erano le comitive di italiani. Nel corso degli anni andranno a  fargli visitata migliaia di persone. Dopo la cena, nuovamente nello studio.
 Nel 1960 Umberto cambiò  casa e traslocò nella seconda Villa Italia, non lontana dalla prima.  Nell’atrio, sulla parete di fronte all’ingresso, in bella mostra, spiccava la  bandiera sabauda, quella ammainata dal pennone del Quirinale il 13 giugno 1946.
 |  |  Quando anche le figlie  se ne andarono, il vuoto più completo lo  circondò, lo divorò, la Boca do inferno si apriva di fronte a lui e sembrava risucchiarlo in un vortice di amarezze,  delusioni, serenità perdute. A volte, la sera, si recava a Lisbona per  ascoltare la voce di una donna bruna, dalla voce roca e melodiosa che sembrava  uscire dall’anima. Si trattava di Amalia Rodriguez. Cantava i fados (fado significa destino), canzoni portoghesi appassionate e  disperate, il rimpianto per una felicità mai avuta e nelle quali Umberto II si  riconosceva. Andava ad ascoltare la cantante in un locale di Lisbona, due volte  la settimana, e si sedeva in prima fila. Quando la regina Giovanna  di Bulgaria nel 1962 lasciò la sua casa di Madrid per donarla al figlio  Simeone, per le sue nozze con l’aristocratica spagnola Margarita Gomez-Acébo y  Cijuela, decise di trasferirsi ad Estoril, in Portogallo, ad un paio di  chilometri da Cascais, proprio per vivere accanto all’amato fratello Umberto.
 
 
                  
                    |  | La salute iniziò a tradirlo  quando stava per compiere i sessant’anni. Nell’aprile del 1964 venne ricoverato  in una clinica di Londra senza avvertire nessun familiare. Si trattava di  cancro, come era accaduto alla sua adorata mamma e che 19 anni più tardi lo  porterà alla morte. L’anno dopo Umberto venne ricoverato a Lisbona a causa di  un incidente automobilistico. Il 1968 fu l’anno del secondo intervento a  Parigi. Il mieloma osseo lo stava divorando. Alla fine del 1983 Umberto  II venne trasferito nell’ospedale cantonale di Ginevra. Uno dei più seguiti e  validi giornalisti italiani, Giovanni Ansaldo, direttore de Il Mattino, scrisse un bellissimo  articolo sul settimanale Tempo, dove  curava una rubrica di commenti dal titolo Il  Serraglio ispirati a fatti o personalità del momento.  L’articolo,  pubblicato il 20 giugno 1964, è dedicato ad Umberto II, ricoverato in una  clinica londinese. Esso trasuda di comprensione umana:                         |  "Non so se mi sbaglio, ma  ritengo di no. Ritengo cioè di non sbagliare, pensando che la grave infermità  di Umberto di Savoia ha ravvivato l’interesse sentimentale del nostro pubblico  per lui. Anche quei molti italiani che non erano mai riusciti a farsi una idea  chiara della sua personalità; anche quei molti italiani che, in mente loro, lo  hanno giudicato un debole fin dagli anni della sua giovinezza quando, pure  essendo nell’intimo suo contrario al regime fascista, non osò fare un gesto che  palesasse la sua ostilità; anche quei molti italiani che ricordano come egli al  momento del tragico abbandono di Roma, e della fuga da Pescara, abbia obbedito  troppo docilmente alle sventurate decisioni paterne; anche quei molti italiani  che guardando da lontano la sua vita di esilio hanno finito per pensare che  egli sia soltanto un gran signore, intelligente raccoglitore di oggetti d’arte  e di memorie araldiche della sua Casa, e nulla più, e in fondo lieto di non  avere più responsabilità politiche e di vivere lontano dai guai; anche questi  tutti numerosi italiani, dico, sono rimasti colpiti dal modo in cui Umberto II  ha affrontato la battaglia suprema, quella da cui dipendeva la sua vita."Quella sua partenza da  Cascais per Londra, senza altra compagnia che quella di un segretario, senza  chiedere il conforto della presenza di nessun familiare; quel suo entrare nella London Clinic, segretamente, senza  neppure chiamare attorno a sé i parenti più stretti sparsi per tutta Europa e  impegnati chi nei suoi studi, chi nei suoi amori, chi nei suoi viaggi mondani;  quella sua preoccupazione di non dare “disturbo” a nessuno; quel suo disprezzo  della pubblicità così raro in un tempo in cui anche l’ingresso in clinica per  farsi operare è per tanta gente di divulgato nome, un pretesto per farsi  fotografare; tutto quel suo contegno insomma ha fatto capire che il “Signore di  Cascais” può essere stato indeciso e privo di volontà nelle grandi crisi del  suo Paese, può avere mancato di   risoluzione, di passione, di “accento” in quel tremendo mese di maggio  che è stato decisivo per la monarchia; ma ha tuttavia in sé un alto coraggio  virile, ed una dignità davvero sovrana dinanzi alla battaglia ultima, quella le  cui sorti si decidono sul tavolo operatorio…
 E sapete chi si è accorto,  nonostante i suoi giovani anni, di questa superiorità di spirito di Umberto II,  di questa sua dignità davvero sovrana? Se ne è accorto il giovane Amedeo di  Savoia Aosta, il figlio di Aimone, Duca di Spoleto, il fidanzato di Claudia di  Francia. Il quale, andato alla London  Clinic per sentire quando Umberto II contasse di essere disponibile per  fare da testimone nel matrimonio, ha finito per restare a Londra parecchi  giorni e per visitare il Capo del Casato parecchie volte. I giornali hanno  favoleggiato su questi incontri in clinica; hanno detto che Umberto II si  prepara a designare Amedeo come successore dei suoi diritti al trono, in caso  di una “fantomatica” restaurazione monarchia in Italia. Figurarsi! Dovette  trattarsi invece di incontri di simpatia: incontri in cui Umberto aveva il  piacere di vedersi vicino un giovane Principe del suo Casato e del suo nome  pieno di rispetto per lui; e in cui il giovane Aosta era lieto di testimoniare  la sua devozione per il Capo della famiglia in esilio, mostratosi così calmo,  così sereno anche dinanzi alla malattia, alla operazione, alla incombenza del  rischio mortale. Mostratosi finalmente un re, con la maiuscola; un Re di se  stesso".
 
 Umberto II era convinto che  l’istituzione monarchica era una realtà sempre al di sopra delle parti, per  questo dichiarò categoricamente che "la monarchia non sarà mai un partito" e  perciò non volle mai intraprendere un cammino politico, benché molti monarchici  e simpatizzanti abbiano tentato di consigliarlo in questa direzione.
 Dopo 30 anni di esilio il  Re tornò a parlare agli italiani con un’intervista televisiva nel 1976. Nessun  accenno polemico in quell’occasione, ricordò soltanto che Carlo Alberto rimase  in esilio tre mesi, "io trent’anni". Poi, un nodo gli serrò la gola e con la  mano fece cenno di non voler aggiungere altro. L’intervista si concluse con la  risposta alla domanda: "Che cosa le manca di più?". "Cosa mi manca?... Il mio  Paese" e le telecamere inquadrarono occhi colmi di tenerezza e di fiera e  indicibile commozione.
 Per le sue esequie,  svoltesi sotto una pioggia battente, ad Hautecombe (13), vicino ad Aix-les-Bains  nell'Alta Savoia, erano presenti diecimila persone, ma neppure un ministro  italiano presenziò, disertarono, infatti, le autorità italiane (ad eccezione  del console italiano di Lione). La RAI non trasmise la diretta televisiva (14).
 Alle esequie erano  presenti: il Re e la regina di Spagna, il Re e la regina dei Belgi, il Granduca  e la Granduchessa del Lussemburgo, il Principe Ranieri di Monaco con il figlio  Alberto, il Duca di Kent in rappresentanza della regina del regno Unito, gli ex  Re di Bulgaria, Romania e Grecia, i rappresentanti delle Case d'Asburgo,  Borbone, Baviera e di altre Case ex regnanti. La Santa Sede era rappresentata  dal Nunzio Apostolico a Parigi.
 
                  
                    |  | Umberto II ha voluto che,  nella propria bara, fosse riposto il sigillo reale, grosso timbro che si  trasmette di generazione in generazione quale simbolo visibile della  legittimità nella linea dinastica e simbolo del gran maestro degli ordini  cavallereschi di Casa Savoia.In tal modo si ritiene che egli abbia inteso  esplicitamente distinguere i suoi eredi dinastici da quelli civili, impedendo a  questi ultimi di entrare in possesso del simbolo che avrebbe potuto ingenerare,  nella pubblica opinione, la convinzione della loro qualità di successori  dinastici.
 |  Umberto II è stato un uomo  silenzioso, discreto, riservato "non toccato dal morbo ormai intollerabile  della intervistomania, dell’esibizionismo e della chiacchiera" disse Geno  Pampaloni, "Conduceva una vita modesta, era fedele al suo ruolo, con stile,  coerenza e senza iattura. È morto da re; seppure lacerato dalla nostalgia per  la sua terra, non ha mai sottoscritto, neppure nei giorni stremati dalla  malattia che lo indeboliva, una qualsiasi parola di abdicazione o di resa.In  sostanza era una persona per bene, che ha dimostrato, nel giugno ’46 di  anteporre il bene della Nazione a quello della dinastia. Non era uomo di  potere, e anzi la sua signorile mitezza appariva improntata al contrario della  sete di potere. La memoria che lascia è una memoria di pulizia, resa più umana  e familiare dalla lunga malinconia dell’esilio".
 Non si lamentò neppure  quando il male lo divorava nelle fibre e nelle forze. Al ritorno da Londra, fu  ricoverato all’Ospedale Cantonale di Ginevra, dove il 18 marzo del 1983 si  spense, all’età di 79 anni. Morì con la parola Italia sulle labbra.
 Affermerà la consorte:  "Italia, Italia, non aveva sulle labbra altra parola fino all’ultimo giorno. Mi  diceva “Vorrei rivedere Napoli, ti ricordi…”. Spesso voleva che tenessi le mie  mani nelle sue e stavamo in silenzio, per ore. È stato un uomo di grande  rettitudine e di virtù e la storia finirà per riconoscerlo. Neppure di fronte  alle più atroci sofferenze perse la dignità e il rigore". Il 24 marzo la sua  salma trovò dimora nell’Abbazia di Altacomba, in Savoia. La corona più prossima  al feretro recitava: "Da Maria José a Umberto".
 Nel maggio del 1982  Giovanni Paolo II incontrò a Lisbona Umberto II, il quale decise di donare al  Papa la Sacra Sindone, massima reliquia della cristianità e per secoli proprietà di Casa  Savoia.Gli appartamenti reali  dell’Abbazia di Hautecombe, come ci illustra il marchese, sono stati lasciati  ai monaci benedettini assieme alla rinuncia dei diritti spettanti al Capo di  Casa Savoia. L’archivio storico della dinastia è stato lasciato all’Archivio di  Stato di Torino. La collezione di medaglie (circa 5000), alla quale ha lavorato  con tanta passione (15) per tutta la vita, è  stata lasciata, con la stessa formula utilizzata nel 1946 da Vittorio Emanuele  III per le monete, al popolo italiano.
 "Se fosse morto in Portogallo",  racconta il marchese Fausto Solaro del Borgo, che da bambino amava starsene  sulle ginocchia della regina Elena, "lasciò detto che doveva essere sepolto nel  cimitero dei poveri con una croce di pietra".
 Afferma il marchese Fausto  Solaro del Borgo: "A questo sovrano va riconosciuto l’enorme merito di aver  salvato l’Italia dalla rivoluzione".
 Che cosa pensa della sua  rinuncia di fronte ad una dubbia vittoria del referendum istituzionale?
 "Due notti prima la sua  partenza dall’Italia, mio padre fu chiamato per andare al Quirinale, erano  circa le 23,00. A  mezzanotte arrivò il  nipote del Papa, Carlo Pacelli, con un automobile che li ha prelevati e, senza  scorta, si sono avviati verso il Vaticano. A mezzanotte e mezza suor  Pasqualina, la suora che si curava di Papa Pacelli, li aspettava all’ascensore  privato. Il Pontefice ricevette il sovrano nel suo appartamento. Rimasero due  ore dentro ed il rientro al Quirinale avvenne nel silenzio più assoluto. Quella  notte il Papa, per risparmiare una “carneficina” domandò al Re di lasciare  l’Italia. Mio padre si convinse che fu in quella circostanza che il Re non ebbe  più tentennamenti e scelse di partire". Rimane, a testimonianza di questa  insindacabile decisione del Sovrano, un preziosissimo documento del marchese  Alfredo Solaro del Borgo, fra i più stretti collaboratori di Umberto II, che  egli dettò nel gennaio del 1993 al figlio Fausto, autenticato e depositato da  un notaio. Esso dimostra come l’11 giugno Umberto II venne invitato da Pio XII  ad un incontro segreto, durato circa un’ora:
 "Per memoria futura  desidero ricordare due episodi risalenti all’epoca in cui S.M. il Re Umberto II  lasciò l’Italia a seguito del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 e che  coinvolsero direttamente o indirettamente S.S. Paolo VI all’epoca in cui  esercitava le funzioni di Sostituto della Segreteria di Stato di S.S. Pio XII  prima di essere nominato Cardinale Arcivescovo di Milano.
 S. E. Rev.ma Mons.  Giovanni Battista Montini, al quale ero legato da fraterna amicizia risalente  all’infanzia trascorsa assieme a Brescia e da una costante frequentazione a  Roma, conosceva il rapporto di fiducia che mi legava a S.M. il Re Umberto II,  ed era al corrente del primo episodio che intendo ricordare e che riguarda  l’incontro che il Sovrano ebbe con S. S. Pio XII due notti prima della partenza  per l’esilio, episodio ignorato per lungo tempo in Italia sino a quando ebbi  occasione di riferire dopo la morte del Sovrano. Questo incontro fu chiesto da  Sua Santità con l’intesa che restasse segreto. Io fui chiamato in Quirinale  intorno alle 20 della sera e fui informato che il Pontefice avrebbe ricevuto il  Sovrano alla mezzanotte.
 Alle 23,30 arrivò in Quirinale il principe Carlo  Pacelli, nipote di Sua Santità, per accompagnarci in Vaticano; il tragitto fu  coperto senza scorta, in una macchina guidata dallo stesso principe Pacelli.  Arrivati nel cortile di San Damaso, proseguimmo fino al cortile di Sisto V,  dove era attesa suor Pasqualina, che ci fece salire con l’’ascensore che porta  direttamente nell’appartamento privato del Papa. Il Sovrano fu subito  introdotto dal Pontefice con il quale si intrattenne in colloquio per circa  un’ora. Il Pontefice espose a S.M. il Re le Sue preoccupazioni per possibili  disordini in Italia in conseguenza dei contestati risultati del referendum  istituzionale e non è da escludere che il colloquio, che trasformò l’incontro  in un congedo, abbia contribuito in maniera sostanziale alla decisione del  Sovrano di lasciare l’Italia.
 Il secondo episodio risale  a una data, che non riesco a precisare, tra la fine del 1946 e l’inizio del  1947 quando già il Sovrano in esilio mi aveva nominato Suo procuratore generale  con l’ingrato compito di affrontare con il Governo Italiano le trattative  connesse con le problematiche patrimoniali, della Famiglia Reale, già sotto la  prospettiva dell’avocazione poi definita dalla Costituzione della Repubblica  entrata in vigore il 1° gennaio 1948.
 Sin dalla partenza di S.M. il Re Umberto  II per l’esilio  S.E. Mons. Giovanni Battista  Montini era stato per me un costante punto di riferimento e di consiglio, oltre  che di concreto aiuto. Con lui fu possibile organizzare il trasferimento in  Vaticano di quanto si poté allora recuperare del patrimonio privato della  Famiglia Reale (depositato prima della partenza per l’esilio presso famiglie  amiche) e fu Lui che si assunse la responsabilità di autorizzarmi a organizzare  sotto la copertura diplomatica della Santa Sede, l’invio di quanto depositato  in Vaticano alla Nunziatura Apostolica in Spagna per il successivo inoltro in Portogallo.  Nei colloqui in Segreteria di Stato e in incontri che periodicamente avevo con  Mons. Sostituto, mi era stato consentito confidare allo stesso la mia  preoccupazione per l’impossibilità di far pervenire mezzi di sostentamento sia  in Egitto agli anziani Sovrani, Vittorio Emanuele III e la Regina Elena, che a  S.M. Umberto II e alla sua Famiglia ospitata in Portogallo da amici che  avevano offerto Loro una prima sistemazione.
 In effetti, al momento della  partenza per l’esilio il Governo aveva bloccato l’intiero patrimonio dei  Sovrani in Italia e all’estero, dove la sola disponibilità era costituita dalla  somma riscossa dall’assicurazione sulla vita de Re Umberto I e depositata in  Gran Bretagna presso la Banca Hambros, con l’autorizzazione della Banca d’Italia.  Nella data più sopra indicata fui informato da Mons. Clarizio, Suo Segretario  particolare, che S.E. Mons. Giovanni Battista Montini desiderava incontrarmi.  Recatomi in Segreteria di Stato a seguito di tale convocazione, incontrai Mons.  Montini il quale mi informò che S.S. Pio XII, venuto a conoscenza delle  difficoltà finanziarie in cui si trovavano il Re Vittorio Emanuele III e la  Regina Elena a seguito del mutamento istituzionale, desiderava mettere a  disposizione degli anziani Sovrani in esilio la somma di lire dieci milioni che  mi fu contestualmente consegnata in contanti dallo stesso Mons. Montini.
 La  generosa elargizione permise ai Sovrani di sopravvivere fino alla Loro morte e  fu da me restituita, direttamente a S.E. Mons. Montini, dopo conclusione della  causa intentata dal Governo della Repubblica a Londra per il sequestro dei  fondi presso la Banca Hambros, che risolvendosi a favore degli Eredi Savoia nel  1951, consentì a S.M. il Re Umberto II di rientrare in possesso di una prima  parte del Suo patrimonio e di disporre di fondi propri anche se in misura  limitata. Su disposizione precisa di Sua Santità Pio XII, comunicatami da  Mons. Sostituto, sempre sotto il vincolo del segreto, l’importo anticipato fu  restituito senza alcuna corresponsione di interessi. Del generoso e spontaneo  gesto del Sommo Pontefice, per espressa richiesta dello stesso trasmessami da  S.E. Mons. Sostituto, non fu data notizia ad alcuno; ne erano a conoscenza solo  S.M. il Re Umberto, il comm. Mario Nardi responsabile della Amministrazione  della Casa Reale e il comm. Eraldo Paci, già alto funzionario del Ministro  della Real Casa e successivamente della Presidenza della Repubblica, succeduto  nella direzione amministrativa del patrimonio del Sovrano dopo la morte del  comm. Nardi.
 Quest’ultimo mi ha recentemente, su mia richiesta, confermato di  ricordare perfettamente l’operazione che allora impostai e portai a termine con  il comm. Nardi inviandomi la lettera che allego alla presente memoria […]" (169. Tale documento è di  importantissimo e fondamentale valore storico: "In primo luogo esso lascia  presumere, sulla base di considerazioni più che plausibili, che effettivamente  la decisione di Umberto II di scegliere l’opzione dell’abbandono del Paese e la  via dell’esilio sia stata influenzata proprio dall’incontro segreto con Pio  XII, così, come, a suo tempo, non è da escludersi che la tanto discussa scelta  del trasferimento del Governo da Roma al Sud fosse stata il risultato delle  preoccupazioni del Pontefice per la salvaguardia di Roma" (17).
 
 Palese, ed occorre  ricordarla, la devozione di Re Umberto II al Sommo Pontefice. Più episodi si  possono recuperare per suffragare tale affermazione che vanno dalla sua visita,  appena nominato Luogotenente, l’8 giugno 1944 per rendere omaggio a Pio XII, alla  volontà di donare la Sacra Sindone a Giovanni Paolo II.
 Vita semplice, sobria,  retta, cattolica. Nel suo quasi quarantennale esilio, Umberto II svolse opera  di aiuto e sostegno verso gli italiani indiscriminatamente, in occasione di  bisogni personali o di eventi drammatici. A Cascais ricevette decine di  migliaia di persone e a tutti coloro che gli scrivevano rispondeva.
 
 
                  
                    |  | "Poco prima della partenza  per l’ultimo viaggio verso l’ospedale di Londra", ci racconta il marchese  Fausto Solaro del Borgo, "fui incaricato di predisporre la riconsegna al  governo italiano, con l’impegno che venisse mantenuta la massima segretezza e  fosse data notizia del gesto del sovrano solo dopo la sua morte, impegno che fu  mantenuto dal Governo.La riconsegna del materiale  avvenne tre settimane prima della morte del re, ed io accompagnai le due casse  da Ginevra a Roma essendo stato prelevato dal Dc9 personale di Sandro Pertini.
 Mi telefonò il presidente  Fanfani, il quale aveva fatto nel frattempo valutare quanto era stato  restituito e mi disse testualmente: “Dobbiamo tutti dire grazie ad un grande  Signore al quale abbiamo portato via tutto e che ora restituisce 2 miliardi e  500 mila lire di valore” (del 1983!) -".
 Sulla sua successione che  cosa pensava Re Umberto?
 "Considerava esaurita la  funzione storica di Casa Savoia con lui, perciò non  ha mai pensato ad un successore dinastico".
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                    | Fra le carte di Re Umberto  rinvenute a Cascais, nei cassetti della sua scrivania, sarà trovato un foglio  scritto di suo pugno. Una citazione di una lettera di san Paolo ai Corinti,  ricopiata in latino e tradotta subito dopo in italiano:"Mihi autem pro minimo est ut a vobis iudicer (aut ab humano die). Sed  neque meipsum iudico. Nihil enim mihi conscius sum: sed non in hoc iusticatus  sum; qui autem iudicat me, Dominus est", "
 "Poco importa a me d’essere  giudicato da voi (o da un tribunale di uomini)… né mi giudico da me stesso,  poiché non ho coscienza di aver commesso alcunché; ma non per questo sono  giustificato: mio giudice è il Signore"
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   Per approfondire:Cristina Siccardi
 Maria José-Umberto di  Savoia. Gli ultimi sovrani d’Italia
 Paoline Editoriale Libri
   Autore: Cristina  Siccardi 
                  
                    1 -  S. Bertoldi, L’ultimo re. L’ultima regina. Umberto e Maria José di Savoia: la fine  della monarchia, pp. 25-26  
                    2 -   S. Bertoldi, L’ultimo re. L’ultima regina. Umberto e Maria José di Savoia: la fine  della monarchia, p. 28 
                     3 -  L. Lami, Il Re di maggio, Umberto II:  dai fasti del "Principe bello" ai tormentati anni dell’esilio, pp. 73-74 
                     5 -  Il duca Vittorio Amedeo II, primo  Re Savoia, è interpretato, in parrucca, corazza e tricorno, dal duca d’Aosta,  mentre la moglie, Anna di Francia, impersona la sua omonima antenata. Il duca  di Pistoia è Carlo Alberto e la moglie, Lydia von Arenberg è la regina Maria  Teresa. 
                     6 -  Montanelli-Cervi, Storia d’Italia-L’Italia della disfatta,  Fabbri Editori,  cfr. pp. 164-165 
                     7 -   L. Lami, Il Re di maggio, Umberto II:  dai fasti del "Principe bello" ai tormentati anni dell’esilio, p. 179 
                     8 -   L. Lami, Il Re di maggio, Umberto II:  dai fasti del "Principe bello" ai tormentati anni dell’esilio, p. 246 
                    9 -   L. Lami, Il Re di maggio, Umberto II:  dai fasti del "Principe bello" ai tormentati anni dell’esilio, p. 251 
                     10 -  L. Barzini, Il mio amico il re, in "Mercurio", luglio-agosto 1946 
                     11 -  Questo il  proclama con il quale Umberto II lasciò l’Italia:"Italiani!
 Mentre  il Paese, da poco uscito da una tragica guerra, vede le sue frontiere  minacciate e la sua stessa unità in pericolo, io credo mio dovere fare quanto  sta ancora in me perché altro dolore e altre lacrime siano risparmiate al  popolo che ha già tanto sofferto.
 Confido  che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una  delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre  la forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il governo ha  commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli  Italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo  interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come re, di elevare la  mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della  Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di  vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse  dissipato ogni dubbio e ogni sospetto.
 A  tutti coloro che ancora conservano fedeltà alla Monarchia, a tutti coloro il  cui animo si ribella all’ingiustizia, io ricordo il mio esempio, e rivolgo  l’esortazione a voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità  del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero  rendere più gravi le condizioni del trattato di pace.
 Con  animo colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo  per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia terra. Si considerino sciolti  dal giuramento di fedeltà al re, non da quello verso la Patria, coloro che lo  hanno prestato e vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo  il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d’Italia e il mio saluto a tutti  gli Italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre  contare su di me come sul più devoto dei suoi figli.
 Viva  l’Italia!
 13  giugno 1946".
 
                     12 - Voti a favore della monarchia: 10.  718.502. Voti a favore della Repubblica: 12.718.641. Palmiro Togliatti  intervenne direttamente per ritardare il rientro in Italia dei reduci dai campi  di prigionia russi, in quanto ne temeva le testimonianze ai fini del voto. Non  poterono votare neppure coloro che prima della chiusura delle liste elettorali  (aprile 1945) si trovavano ancora fuori del territorio nazionale nei campi di  prigionia o di internamento all'estero, o comunque non sul territorio  nazionale. Di queste centinaia di migliaia di persone non furono ammesse al  voto neppure quelle rientrate tra la data di chiusura delle liste e le  votazioni. Furono inoltre escluse dal voto: la provincia di Bolzano con  Bolzano, la Venezia Giulia con Gorizia, Trieste, Pola e Fiume, la città di  Zara, in quanto non sotto il governo italiano, ma sotto il governo militare  alleato o Jugoslavo (Zara, Pola e Fiume, non torneranno mai sotto il territorio  italiano). Secondo il messaggio di Umberto II si trattò di un  colpo di Stato "in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della  magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario assumendo, con  atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto  nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza.  Proclamo pertanto lo scioglimento del giuramento di fedeltà al Re, non a quello  verso la Patria, di coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede  attraverso tante durissime prove".
 
                     13 -  Le spoglie dell'ultimo sovrano  d'Italia riposano, per suo espresso volere, nell'Abbazia di Altacomba, a fianco  di quelle del Re Carlo Felice, nella regione francese della Savoia dalla quale  Casa Savoia ha tratto le sue origini storiche. 
                     14 -   Quando morì, l’unico segno di  lutto in Italia fu portato dai calciatori della Juventus per volontà di  Giovanni Agnelli. 
                     15 - Costituì anche un’importante  collezione di cimeli sabaudi e scrisse un vastissimo volume sulla medaglistica  sabauda. 
                     16 -   Il documento, firmato dal marchese  Alfredo Solaro del Borgo, è riportato nella Tesi di F. Nucera, Le relazioni diplomatiche tra il Regno  d’Italia e la Santa Sede dal 1848 al 1946, A:A: 2007-2008, Pontifico  Istituto Teresianum-Corso in Dirittto Consolare, Roma, pp. 55-56. della stessa Autrice:   - per altre notizie sulla santità Sabauda vedere: e su Casa Savoia:   Sui Savoia, in libreria, di 
				  Cristina Siccardi:- Elena. La regina mai dimenticata  - 
				  Ed. Paoline
 
 - Mafalda di Savoia. Dalla reggia al lager di Buchenwald  - 
				  Ed. Paoline
 
 - Giovanna di Savoia. Dagli splendori della reggia alle amarezze dell'esilio - 
				  Ed. Paoline
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