Rubriche di
Patrizia Fontana Roca

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GIORDANO BRUNO

 

 


Chi  ha l’occasione di recarsi a Roma in Piazza Campo de’ Fiori, non solo potrà visitare una delle più belle e storiche piazze della città, ma avrà l’opportunità anche di osservare al centro della piazza un bel monumento costruito da Ettore Ferrari ed inaugurato il 9 giugno 1889, il quale è posto proprio nel luogo ove nel febbraio del 1600 fu arso vivo quale eretico impenitente Giordano Bruno il grande filosofo a cui il monumento è dedicato.


Il suo martirio concluse il Cinquecento, un secolo ricco di avvenimenti tragici sia per la Chiesa che per l’Europa intera e ne aprì uno nuovo anch’esso foriero di forti sconvolgimenti socio-politici.


La luce del suo rogo illuminò il triste periodo dell’Italia della controriforma : preti e gendarmi intenti a bruciare un ribelle la cui unica colpa era quella, grave per quei tempi, di aver osato dire pubblicamente quel che pensava e di fare della libertà di pensiero lo scopo della sua vita.
Egli morì saldo e coerente con le proprie idee, ben sapendo che la sua terribile morte non avrebbe distrutto le sue opere, ma che il suo sacrificio gli avrebbe dato fama e gloria per l’eternità.


La Chiesa per secoli ha commesso l’errore di credere che eliminando i corpi si sarebbero potute eliminare anche le idee, ma questo modo di procedere si dimostrò un grave errore di valutazione in quanto, come la storia ci ha insegnato, l’eliminazione fisica degli eretici quasi sempre fu seme per la crescita di nuovi e sempre più numerosi seguaci.

 

Cerchiamo ora di conoscere meglio la vita di questo focoso e coraggioso frate , con la premessa che il mio articolo analizzerà il personaggio Bruno  solo dal punto di vista storico, non avendo la preparazione idonea per commentare il suo pensiero filosofico (peraltro abbastanza complicato anche per gli addetti ai lavori).


LA VITA

 

Egli nacque a Nola in provincia di Napoli nel Gennaio (o Febbraio) 1548 da Giovanni Bruno e Fraulisa Savolino, modesta proprietaria terriera. Il suo vero nome di battesimo era Filippo, perché Giordano fu il nome che prese quando entrò nell’ordine dei Domenicani, come era l’usanza di allora.
Imparò a leggere e scrivere da un prete nolano e fece gli studi di grammatica nella scuola di un certo Bartolo di Aloia. Quelli superiori li seguì a Napoli dove studiò lettere, logica, dialettica e filosofia aristotelica, quest’ultima sotto la guida dell’agostiniano Frà Teofilo da Vairano.

Nel 1565 Giordano entrò come novizio nel convento domenicano di S. Domenico Maggiore di Napoli, dove il 16 giugno 1566 prese i voti, diventando professo e fu in questa occasione che cambiò il nome in Giordano. Nel 1570 fu ordinato suddiacono, diacono nel 1571 studente di teologia nel 1572 ed infine sacerdote nello stesso anno, celebrando la sua prima messa nel convento di S. Bartolomeo a campagna, vicino Salerno.
Nel 1575 si laureò in teologia con tesi su Tommaso d’Aquino e su Pietro Lombardo. Però come lui stesso disse più tardi, la vita religiosa non era fatta per lui; effettuò questa scelta solamente per dedicarsi ai suoi studi prediletti di filosofia, con il vantaggio di godere della condizione di privilegio che l’appartenenza all’Ordine gli garantiva.

In questo periodo egli si fece notare per le sua straordinaria memoria e per l’ inesauribile curiosità che lo rendeva avido di ogni ramo dello scibile, dalla filosofia alla letteratura, dall’astronomia alla fisica, dalla matematica alla magia. Trascorreva gran parte del suo tempo nelle biblioteche e negli archivi, immerso in letture sacre e profane ed incurante di osservare le regole dell’Ordine di appartenenza e trascurando spesso anche i suoi doveri sacerdotali. L’osservanza della vita religiosa l’opprimeva sempre di più, fino al punto da fargli maledire il giorno in cui si era fatto monaco.

La rottura definitiva avvenne nel 1576, quando accusato di arianesimo e di antitrinitarismo (giustamente!), fu processato per eresia. Ma egli non attese la fine del processo e fuggì a Roma presso il convento di Santa Maria sopra Minerva dove però nel marzo dello stesso anno si mise ancora nei guai, essendo stato accusato di aver ammazzato e gettato nel fiume un confratello, testimone nel suo processo napoletano.

 

Santa Maria Sopra Minerva

 

A questo punto Bruno prese la decisione di gettare la tonaca e abbandonare l’ordine domenicano, riassumendo il nome di Filippo e fuggendo verso il Nord Italia, prima a Genova dove rimase scandalizzato che nella chiesa di S. Maria a Castello si adorasse come reliquia e si facesse baciare ai fedeli la coda dell’asina che portò Gesù a Gerusalemme. Poi nel 1577 sarà a Savona quindi a Torino che gli piacque molto ma non trovandovi lavoro, per via fluviale si recò a Venezia dove fece stampare il suo primo libro: “De’ segni de’ tempi”.

Scoppiata a Venezia una terribile epidemia di peste che causerà decine di migliaia di vittime, Bruno fu costretto a trasferirsi a Padova, dove dietro consiglio di alcuni domenicani riprese ad indossare il saio (la ragione per cui lo fece non è nota). Successivamente si recò a Brescia poi a Chambery nella Savoia, dove svernò nel 1578-1579 per poi proseguire alla volta di Ginevra nella primavera del 1579.

In questa città era presente una folta comunità di esuli italiani i quali erano stati costretti a fuggire dall’Italia a causa della loro adesione alla Riforma calvinista ed il loro capo, il marchese di Vico, gli concesse ospitalità con l’intento di convertirlo al calvinismo, al cui credo sembra che per un breve periodo Bruno aderisse, gettando di nuovo il saio “alle ortiche”. Qui egli trovò lavoro come correttore di bozze e assistendo avidamente alle lezioni di filosofia che si tenevano nella locale università.
Ma fu proprio a causa di una accusa di incapacità rivolta contro il prof. De La Faye, noto professore di filosofia e molto vicino ai capi calvinisti, che fu costretto ad abbandonare la città, dopo aver subito un processo ed essere stato condannato ad un atto di pentimento pubblico che Bruno fu costretto a subire.

Scontata l’umiliante pena, lasciò Ginevra e si diresse in Francia a Tolosa, una delle città più tolleranti d’Europa e sede di un’importante università, dove riuscì a farsi assegnare una cattedra di filosofia insegnandovi il “De Anima” di Aristotele ed a comporre vari trattati sull’arte della memoria (ad esempio il De Umbris idearum).

Ma nel 1581, a causa delle guerre di religione fra cattolici e ugonotti, solo dopo 18 mesi di permanenza fu costretto a partire per Parigi dove riuscì a procurarsi anche qui un posto d’insegnante alla Sorbona, tenendovi un corso di filosofia sui trenta attributi divini secondo S. Tommaso d’ Aquino che gli diede una notevole popolarità.

 

Michel de Castelneau

John Dee


 

Nel 1582, la pubblicazione di una sua commedia in cinque atti “Il Candelaio“, gli alienò le simpatie della Corte , della Chiesa e del mondo accademico,  essendo la commedia una satira feroce contro il clero e contro gli eruditi in cui molti professori universitari della Sorbona  credettero di riconoscersi  e forse non a torto, essendo Bruno per natura un provocatore.
Comunque a causa di ciò, capì che era meglio cambiare aria e nell’aprile del 1583 al seguito dell’ambasciatore Michel de Castelnau, signore di Mauvissière,  si recò in Inghilterra, a Londra, dove secondo alcuni storici svolse attività di spionaggio, sotto lo pseudonimo di Henry Fagot, al servizio di Sir Francis Walshingham,  proprio contro l’ambasciatore francese che l’aveva portato con sè. Anche questo episodio oscuro ci fa capire quale  complessa  personalità albergasse in Giordano Bruno.
Comunque in Inghilterra conobbe diversi personaggi famosi dell’epoca, come la stessa regina Elisabetta I, John Dee ed il poeta  Philip Sidney del quale divenne amico.

L’Università di Oxford gli spalancò le porte ed egli vi tenne un ciclo di conferenze sull’immortalità dell’anima. Ma dopo un feroce scontro  con un famoso teologo inglese, degenerato ben presto in una rissa verbale e dopo un’accusa di plagio nei confronti di Marsilio Ficino,  fu cacciato via.

 Molto offeso  lasciò Oxford per tornare a Londra ma anche qui fu protagonista di un ennesimo scontro con alcuni  cattedratici inglesi.
Questo episodio fu da lui descritto in uno dei suoi più famosi libri: “La Cena delle ceneri “  dove si racconta in modo beffardo la realtà inglese del momento. La pubblicazione dell’opera provocò notevole sdegno fra gli intellettuali inglesi  tanto da costringerlo a ritornare in Francia nell’ottobre 1585.


Nel suo soggiorno inglese egli pubblicò alcune delle sue opere più famose tra le quali: “De la causa, principio et uno: la vita come materia infinita“, il  “De infinito universo e mondi“ e gli “Eroici furori“.

Nell’ottobre 1585, mentre ritornava in Francia con l’ambasciatore Castelnau, come se le tribolazioni fin qui patite non fossero state sufficienti, la nave che lo riportava in Francia fu assalita dai pirati che derubarono lui e gli altri  passeggeri di ogni avere.

Sbarcato in terra francese andò ad abitare presso il collège de Cambrai,  a Parigi, dove si trattenne solo nove mesi a causa del  suo spirito oltremodo polemico che gli procurò altri guai in almeno due occasioni:  quando insultò pubblicamente il matematico salernitano Fabrizio Mordente, un protetto della potente famiglia dei Guisa e quando, dopo la pubblicazione di un suo opuscolo antiaristotelico “Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos” e partecipando alla successiva pubblica disputa nel Collège de Cambrai, ribadì le sue critiche alla filosofia aristotelica molto in auge allora nelle università.

Visto che  l’ostilità nei  suoi confronti aumentava di giorno in giorno e non avendo più appoggi a corte, nel giugno 1586 fu costretto a lasciare la Francia alla volta della Germania.

Dopo una breve soggiorno a Magonza e Wiesbaden, il 20 agosto 1586 s’immatricolò nell’università di Wittenberg come doctor italicus, insegnandovi per due anni e pubblicando nuove opere tra cui il “De lampada combinatoria lulliana“ e “Artificium perorandi".

 

Ma nel 1588 decise di lasciare Wittenberg  per le mutate condizioni religiose: infatti al luterano Augusto I, successe suo figlio Cristiano I, seguace di Melantone, discepolo e sostenitore del pensiero religioso  calvinista.

 

Non approvando questo cambiamento, decise di lasciare la Germania per andare a Praga, dove rimase sei mesi. Ma non riuscendo ad ottenere una cattedra all’università di questa città, ritornò in Germania e, dopo una breve sosta a Tubinga, nel gennaio 1589, giunse a Helmstadt, nella cui università  potè insegnare come libero docente.

 

Marcello da mezza lira in argento battuto a Venezia dal Doge Giovanni Mocenigo, nel XV Secolo


In questo periodo Bruno aderì al luteranesimo (per convenienza non per convinzione,  essendo Bruno allergico ad ogni religione dogmatica), ma questo non impedì al Sovrintendente della locale Chiesa Luterana Heinrich Boethus,  di scomunicarlo per  filocalvinismo: dopo quella cattolica e quella calvinista,  questa fu la sua terza scomunica.

Ad  Helmstadt comunque egli pubblicò i suoi trattati sulla magi : “De Magia “, “Theses de magia“ e la “De rerum principiis et elementis et causis“.
Alla fine del 1590 lasciò Helmstadt per Francoforte dove pubblicò dei trattati filosofici e dopo aver passato l’inverno a Zurigo, ritornò a Francoforte nella primavera del 1591, dove ricevette una lettera speditagli dal nobile veneziano  Giovanni Mocenigo che lo invitava a recarsi a Venezia per insegnare l’arte della memoria.

Bruno accettò,  anche se molti storici non sono riusciti a capirne la ragione, considerato che in Italia era ricercato dalla Santa Inquisizione per eresia e blasfemia.

Comunque, nell’agosto 1591 giunse a Venezia dove si trattenne qualche giorno, recandosi poi a Padova dove rimase solo pochi mesi per poi ritornare di nuovo a Venezia, a casa del patrizio veneziano. 

Il Mocenigo però, scontento del comportamento di Bruno e su consiglio del suo confessore,  il 23 maggio 1592 presentò all’Inquisizione una denuncia  scritta accusandolo di blasfemia, di eresia e di pratica della magia; quella sera stessa Bruno fu arrestato e rinchiuso nelle carceri dell’Inquisizione di Venezia, in San Domenico a Castello.


 

IL PROCESSO E LA CONDANNA

 

Bruno si presentò la prima volta davanti ai giudici il 26 maggio 1592 e le udienze si protrassero per molte settimane, durante le quali subì estenuanti interrogatori.

 

L’inquisizione veneziana lo accusò di aver negato la Trinità, l’incarnazione, i miracoli di Gesù, deriso la religione e proposto di sostituirla con la filosofia. Fu accusato anche di essere un lussurioso e d’aver frequentato molte donne.

 

Bruno si difese abilmente dalle accuse, negando quanto potè, tacendo e a volte mentendo su alcuni punti delicati della sua dottrina, nella certezza che gli accusatori non potessero essere a conoscenza di tutto quanto egli aveva fatto e scritto.

 

Alla fine stanco e malato, chiese perdono degli errori commessi e si dichiarò disposto a ritrattare quanto si trovava in contrasto con la dottrina della Chiesa.

 

San Roberto Bellarmino

Nel frattempo però il  Sant’Uffizio romano chiese più volte la sua estradizione e se un primo tentativo fu respinto dal Senato veneziano, nulla esso potè contro una seconda richiesta, motivata dal fatto che Bruno non era cittadino veneziano.

Il 27 febbraio 1593 Bruno fu trasferito a Roma ed incarcerato nel palazzo del Sant’Uffizio. Il processo che ne seguì andò avanti per sette anni, durante i quali egli dovette subire molti interrogatori ed ogni sorta di tortura, mantenendosi però fermo nel non rinnegare i fondamenti della sua filosofia, anzi rinnegando le precedenti ritrattazioni e tenendo testa agli inflessibili inquisitori tra i quali spiccava il gelido e ascetico  cardinale Roberto Bellarmino.

Il 12 gennaio 1599 fu esortato ufficialmente ad abiurare otto proposizioni eretiche  ed a  settembre stanco e malato  sembrò essere pronto a sottomettersi alla Chiesa, ma solo una settimana dopo cambiò idea.

La situazione precipitò dopo una denuncia anonima che lo accusava di aver scritto contro il Papa e questa nuova accusa portò ad un nuovo  irrigidimento delle due  posizioni, che sfociò nell’inevitabile sua condanna a morte, quale eretico  impenitente e pertinace, pronunciata l’otto febbraio 1600

 

Ascoltò la condanna in ginocchio ma a lettura finita si alzò in piedi esclamando la famosa frase: “Forse con maggiore timore pronunciate contro di me la sentenza, di quanto ne provi io nel riceverla“.

 

 

Dopo aver rifiutato i conforti religiosi ed il crocifisso, fu condotto a Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600 con una mordacchia in bocca per impedirgli di bestemmiare e qui, spogliato delle vesti ed issato sul rogo, fu bruciato vivo come eretico impenitente (quelli pentiti venivano impiccati prima di essere bruciati).

La descrizione della sua esecuzione fu rinvenuta tre secoli dopo nell’archivio  dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato detta della Misericordia che aveva l’ufficio, conservato fino al 1870, di accompagnare all’estremo supplizio i condannati a morte.

L’atto di morte del Bruno è registrato nei libri  dell’ Arciconfraternita e precisamente nel volume 15,  carta 87. Ecco come venne descritta l’esecuzione di Giordano Bruno:

 “A hore due di notte fu intimato alla Compagnia che la mattina si douea far giustizia d’un in Ponte, et pero alle 6 hore di notte radunati li confortatori e cappellano in sant’Orsola, et andati alla carcere di Torre di Nona, entrati nella nostra capella e fatte le solite orattioni ci fu consegnato il sottoscritto a morte condennato videlicet.
Giordano del quondam Giuoanni Bruni,  frate apostata da Nola di Regno eretico impenitente; il quale esortato da nostri fratelli con ogni carità e fatti chiamare due padri di san Domenico, due del Giesu, due della Chiesa nuoua e uno di san Girolamo, i quali con ogni affetto et con molta dottrina mostrandoli l’error suo, finalmente stette sempre nella sua maledetta ostinatione, aggirandosi il cervello e l’intelletto con mille errori et vanità, et ansi peseuerò nella sua ostinatione che da ministri di iustitia fu condotto in Campo dè Fiori e quiui spogliato nudo e legato a un palo fu brusciato uiuo, aconpagniato sempre dalla nostra compagnia cantando le litanie e li confortatori sino al ultimo punto confortandolo allasar la sua ostinatione, con la quale finalmente finì la sua misera et infelice vita “ .

 

Se la sua spaventosa  morte  lo fece ergere a  simbolo del libero pensiero, per la Chiesa che lo condannò, essa  rimane un’ onta che neppure la recente  richiesta di perdono da parte di Papa Giovanni Paolo II,  per gli errori commessi dalla Chiesa nel corso dei secoli, è riuscita a rimuovere.



dello stesso Autore:

 

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Breve Trattato sul Purgatorio


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